IL COGNOME DEL PADRE E DELLA MADRE
UN’antropologa, Giuditta Lo Russo, nel lontano 1995 pubblicò un libro sull’origine della paternità (“Uomini e padri – L’oscura questione maschile”, Ed. Borla), in cui portava alla luce le ragioni per cui gli uomini hanno inventato, nella lontana età primitiva, la figura del padre. Una questione ancora oggi aperta, come dimostra la vicenda della condanna dell’Italia, da parte della Corte europea dei Diritti Umani, sull’attribuzione del cognome della madre al figlio e alla figlia e il conseguente decreto legge del Governo.
Per poter capire il senso di quel decreto, è il caso di ricordare quanto Giuditta Lo Russo sostiene nel suo libro. << In quell’età – lei scrive – , quando si ignorava la proprietà fecondativa dello sperma, c’era “ignoranza della paternità” e questo spiega l’allora matrilinearità (discendenza materna) a cui l’uomo poteva partecipare solo legandosi alla madre. Gli uomini si sentivano, così, esclusi dalla generazione della vita e dalla discendenza, il che creava in loro una “situazione esistenziale” insostenibile. E’ per inserirsi nel processo procreativo che inventarono, sul piano culturale e sociale, la figura paterna e il suo legame con il bambino. Originariamente, perciò, non è il figlio ad aver avuto bisogno di essere riconosciuto dal padre, ma è innanzitutto il padre che ha avuto fondamentalmente bisogno di questo riconoscimento e di dare il nome al figlio. L’uomo ha costruito il patriarcato per risolvere la sua “situazione esistenziale” nel processo procreativo, si è creato un ordine in cui si è dato una posizione di centralità e di dominio. Ha rovesciato la dipendenza naturale dalla madre nella dipendenza sociale della donna da lui, quale padre, marito, fratello. All’origine della creazione della paternità vi è la cancellazione della relazione primaria madre–figlio e figlia, e quando gli uomini conobbero il loro apporto genetico alla procreazione, se ne servirono per rafforzare, ancora di più, un ordine che assicurava loro potere e controllo, nella famiglia e fuori, sulla maternità, svalorizzata nella sua capacità riproduttiva. Quando si riconoscerà che “la madre è più antica del padre”, come scriveva Bachofen, e che si è figlie e figli perché si ha una madre, la questione del cognome ai figli, troverà il suo giusto ordine.>>
Di questo libro parlai per la prima volta, su questo giornale, nel 2001 in occasione del caso di una donna, Anna D., che non aveva voluto che a suo figlio, nato da una relazione extramatrimoniale, fosse attribuito il cognome del padre. L’uomo, sposato, dopo qualche anno di riflessione, aveva deciso di legittimare il piccolo e per fare questo aveva ottenuto anche il consenso della moglie. Così i giudici, sia di primo che di secondo grado, avevano deciso che il minore si sarebbe chiamato come lui, previo abbandono del cognome materno. Anna, allora, fece ricorso alla Cassazione, che accolse la sua richiesta, che il figlio mantenesse il suo cognome.
Veniamo all’oggi. Un altro caso. Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, genitori di Maddalena, nel 1999 si vedono impedito di registrare la figlia con il solo cognome materno. Si appellano alla Corte europea di Strasburgo e questa dopo anni, in chiave antidiscriminatoria, ha stabilito che i genitori hanno il diritto di dare ai propri figli e alle proprie figlie anche il solo cognome della madre, condannando l’Italia per averlo negato ai due coniugi. Il Governo corre ai ripari e in questi giorni ha approvato un Decreto legge in cui si consente alla madre di dare il suo cognome ai figli e alle figlie solo se il padre è d’accordo.
Ancora una volta la legge cancella e disconosce il fatto che donne e uomini veniamo al mondo da una donna. E’ lei che ci introduce nel mondo dandoci “la vita e la parola”, come scrive Luisa Muraro nel suo libro del 1991 “L’ordine simbolico della madre”, Ed. Riuniti. Non c’è simmetria, non c’è parità e uguaglianza, tra il diventare madre e il diventare padre. E’ finito, grazie alla rivoluzione femminista, il dominio maschile sul corpo delle donne e con esso il “vecchio” patriarcato, dentro cui gli uomini hanno inventato il primato della paternità con la trasmissione del loro cognome. Il “moderno” patriarcato, non potendo far più ricorso a quel dominio, usa la cultura della parità e dell’uguaglianza per neutralizzare la differenza femminile e rendere simmetrica la relazione tra i sessi, cancellando, ancora una volta, la relazione primaria madre – figlia – figlio.
Quando il Governo nel suo decreto, riferendosi all’attribuzione del nome materno, parla di “complessa materia” da approfondire con un “gruppo di lavoro presso la Presidenza”, in realtà non fa che nominare il disordine simbolico in cui si muovono uomini e donne quando si ostinano a non voler vedere ed accettare quello che è evidente da sempre: si viene al mondo da una madre.
Franca Fortunato
[il Quotidiano della Calabria 17/01/2014]
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La sentenza della Corte europea dei Diritti umani si è espressa il 7 gennaio con 6 voti a favore e il parere contrario del giudice Dragoljub Popović, che ha ritenuto sostanzialmente giustificata l’opposizione del Governo italiano.
Il Governo italiano nel 2013 si era costituito nel procedimento con le eccezioni riportate ai punti A e B della sentenza, di fatto difendendo l’ordinamento giuridico nazionale contro i coniugi milanesi ricorrenti e sostenendo tuttavia che la legislazione vigente è lo strumento giuridico che ha permesso loro di far aggiungere ai loro figli il cognome della madre al cognome del padre. Essi avevano infatti avuto dal prefetto di Milano il permesso di cambiare, come desiderato, il cognome della loro figlia.
La Corte non ha ritenuto ricevibili le opposizioni del Governo contro il ricorso dei coniugi Cusan e Fazzo, riscontrando che da parte dell’Italia vi è stata violazione dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione.
E al paragrafo 67 giunge alle conclusioni: … la determinazione del cognome dei «figli legittimi» è stata fatta unicamente sulla base di una discriminazione fondata sul sesso dei genitori. La regola in questione vuole infatti che il cognome attribuito sia, senza eccezioni, quello del padre, nonostante la diversa volontà comune ai coniugi. Del resto, la stessa Corte costituzionale italiana ha riconosciuto che il sistema in vigore deriva da una concezione patriarcale della famiglia e della potestà maritale, che non è più compatibile con il principio costituzionale dell’eguaglianza tra uomo e donna (paragrafo 17 supra). La Corte di cassazione lo ha confermato (paragrafo 20 supra). La regola secondo la quale il cognome del marito è attribuito ai «figli legittimi» può rivelarsi necessaria in pratica e non è necessariamente in contrasto con la Convenzione (si veda, mutatis mutandis, Losonci Rose e Rose, sopra citata, § 49), tuttavia l’impossibilità di derogarvi al momento dell’iscrizione dei neonati nei registri di stato civile è eccessivamente rigida e discriminatoria nei confronti delle donne.
Nella sentenza i giudici riportano che nessun risarcimento è richiesto dai coniugi ricorrenti né per l’eventuale danno subito né per le spese giudiziarie affrontate in quanto la semplice constatazione di una violazione costituisce, per loro, date le particolari circostanze del caso di specie, un’equa soddisfazione.
Ammirevole.
Non mancano sul fronte del conservatorismo interno più coriaceo contrarietà alla condanna europea dell’Italia, vista ad es. come pesante condizionamento pubblico, praticamente una prevaricazione dell’ideologia sul diritto, insomma un regalo all’ideologia veterofemminista: il figlio – come l’utero del post 68 – è mio e lo gestisco io, fin dall’attribuzione del cognome (A. Mantovano).