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Nel cognome della madre

Nice to meet you...foto japeye/flikr

IL COGNOME DEL PADRE E DELLA MADRE

UN’antropologa, Giuditta Lo Russo, nel lontano 1995 pubblicò un libro sull’origine della paternità (“Uomini e padri – L’oscura questione maschile”, Ed. Borla), in cui portava alla luce le ragioni per cui gli uomini hanno inventato, nella lontana età primitiva, la figura del padre. Una questione ancora oggi aperta, come dimostra la vicenda della condanna dell’Italia, da parte della Corte europea dei Diritti Umani, sull’attribuzione del cognome della madre al figlio e alla figlia e il conseguente decreto legge del Governo.

Per poter capire il senso di quel decreto, è il caso di ricordare quanto Giuditta Lo Russo sostiene nel suo libro. << In quell’età – lei scrive – , quando si ignorava la proprietà fecondativa dello sperma, c’era “ignoranza della paternità” e questo spiega l’allora matrilinearità (discendenza materna) a cui l’uomo poteva partecipare solo legandosi alla madre. Gli uomini si sentivano, così, esclusi dalla generazione della vita e dalla discendenza, il che creava in loro una “situazione esistenziale” insostenibile.  E’ per inserirsi nel processo procreativo che inventarono, sul piano culturale e sociale, la figura paterna e il suo legame con il bambino. Originariamente, perciò, non è il figlio ad aver avuto bisogno di essere riconosciuto dal padre, ma è innanzitutto il padre che ha avuto fondamentalmente bisogno di questo riconoscimento e di dare il nome al figlio. L’uomo ha costruito il patriarcato per risolvere la sua “situazione esistenziale” nel processo procreativo, si è creato un ordine in cui si è dato una posizione di centralità e di dominio. Ha rovesciato la dipendenza naturale dalla madre nella dipendenza sociale della donna da lui, quale padre, marito, fratello. All’origine della creazione della paternità vi è la cancellazione della relazione primaria madre–figlio e figlia, e quando gli uomini conobbero il loro apporto genetico alla procreazione, se ne servirono per rafforzare, ancora di più, un ordine che assicurava loro potere e controllo, nella famiglia e fuori, sulla maternità, svalorizzata nella sua capacità riproduttiva. Quando si riconoscerà che “la madre è più antica del padre”, come scriveva Bachofen, e che si è figlie e figli perché si ha una madre, la questione del cognome ai figli, troverà il suo giusto ordine.>>

Di questo libro parlai per la prima volta, su questo giornale, nel 2001 in occasione del caso di una donna, Anna D., che non aveva voluto che a suo figlio, nato da una relazione extramatrimoniale, fosse attribuito il cognome del padre. L’uomo, sposato, dopo qualche anno di riflessione, aveva deciso di legittimare il piccolo e per fare questo aveva ottenuto anche il consenso della moglie. Così i giudici, sia di primo che di secondo grado, avevano deciso che il minore si sarebbe chiamato come lui, previo abbandono del cognome materno. Anna, allora, fece ricorso alla Cassazione, che accolse la sua richiesta, che il figlio mantenesse il suo cognome.

Veniamo all’oggi. Un altro caso. Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, genitori di Maddalena, nel 1999 si vedono impedito di registrare la figlia con il solo cognome materno. Si appellano alla Corte europea di Strasburgo e questa dopo anni, in chiave antidiscriminatoria, ha stabilito che i genitori hanno il diritto di dare ai propri figli e alle proprie figlie anche il solo cognome della madre, condannando l’Italia per averlo negato ai due coniugi. Il Governo corre ai ripari e in questi giorni ha approvato un Decreto legge in cui si consente alla madre di dare il suo cognome ai figli e alle figlie solo se il padre è d’accordo.

Ancora una volta la legge cancella e disconosce il fatto che donne e uomini veniamo al mondo da una donna. E’ lei che ci introduce nel mondo dandoci “la vita e la parola”, come scrive Luisa Muraro nel suo libro del 1991 “L’ordine simbolico della madre”, Ed. Riuniti. Non c’è simmetria, non c’è parità e uguaglianza, tra il diventare madre e il diventare padre. E’ finito, grazie alla rivoluzione femminista, il dominio maschile sul corpo delle donne  e con esso il “vecchio” patriarcato, dentro cui gli uomini hanno inventato il primato della paternità con la trasmissione del loro cognome. Il “moderno” patriarcato, non potendo far più ricorso a quel dominio, usa la cultura della parità e dell’uguaglianza per neutralizzare la differenza femminile e rendere simmetrica la relazione tra i sessi, cancellando, ancora una volta, la relazione primaria madre – figlia – figlio.

Quando il Governo nel suo decreto, riferendosi all’attribuzione del nome materno, parla di “complessa materia” da approfondire con un “gruppo di lavoro presso la Presidenza”, in realtà non fa che nominare il disordine simbolico in cui si muovono uomini e donne quando si ostinano a non voler vedere ed accettare quello che è evidente da sempre: si viene al mondo da una madre.

Franca Fortunato

[il Quotidiano della Calabria 17/01/2014]

*** 

La sentenza della Corte europea dei Diritti umani si è espressa il 7 gennaio con 6 voti a favore e il parere contrario del giudice Dragoljub Popović, che ha ritenuto sostanzialmente giustificata l’opposizione del Governo italiano.

Il Governo italiano nel 2013 si era costituito nel procedimento con le eccezioni riportate ai punti A e B della sentenza, di fatto difendendo l’ordinamento giuridico nazionale contro i coniugi milanesi ricorrenti e sostenendo tuttavia che la legislazione vigente è lo strumento giuridico che ha permesso loro di far aggiungere ai loro figli il cognome della madre al cognome del padre. Essi avevano infatti avuto dal prefetto di Milano il permesso di cambiare, come desiderato, il cognome della loro figlia.

La Corte non ha ritenuto ricevibili le opposizioni del Governo contro il ricorso dei coniugi Cusan e Fazzo, riscontrando che da parte dell’Italia vi è stata violazione dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione.

E al paragrafo 67 giunge alle conclusioni: … la determinazione del cognome dei «figli legittimi» è stata fatta unicamente sulla base di una discriminazione fondata sul sesso dei genitori. La regola in questione vuole infatti che il cognome attribuito sia, senza eccezioni, quello del padre, nonostante la diversa volontà comune ai coniugi. Del resto, la stessa Corte costituzionale italiana ha riconosciuto che il sistema in vigore deriva da una concezione patriarcale della famiglia e della potestà maritale, che non è più compatibile con il principio costituzionale dell’eguaglianza tra uomo e donna (paragrafo 17 supra). La Corte di cassazione lo ha confermato (paragrafo 20 supra). La regola secondo la quale il cognome del marito è attribuito ai «figli legittimi» può rivelarsi necessaria in pratica e non è necessariamente in contrasto con la Convenzione (si veda, mutatis mutandis, Losonci Rose e Rose, sopra citata, § 49), tuttavia l’impossibilità di derogarvi al momento dell’iscrizione dei neonati nei registri di stato civile è eccessivamente rigida e discriminatoria nei confronti delle donne.

Nella sentenza i giudici riportano che nessun risarcimento è richiesto dai coniugi ricorrenti né per l’eventuale danno subito né per le spese giudiziarie affrontate in quanto la semplice constatazione di una violazione costituisce, per loro, date le particolari circostanze del caso di specie, un’equa soddisfazione.  

Ammirevole.

Non mancano sul fronte del conservatorismo interno più coriaceo contrarietà alla condanna europea dell’Italia, vista ad es. come pesante condizionamento pubblico, praticamente una prevaricazione dell’ideologia sul diritto, insomma un regalo all’ideologia veterofemminista: il figlio – come l’utero del post 68 – è mio e lo gestisco io, fin dall’attribuzione del cognome (A. Mantovano).

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Carolina Girasole, sindaca di Isola Capo Rizzuto – Rosy Canale, Donne di San Luca

Riceviamo da Franca Fortunato che ringraziamo. 

LE SPIEGAZIONI CHE  CAROLINA CI DEVE

DOLORE, smarrimento, incredulità sono i sentimenti che mi hanno stretta in una morsa alla notizia dell’arresto di Carolina Girasole. Ho sentito il vuoto di parole dentro di me. Non riuscivo a dire a me stessa se non “non è possibile”, “non può essere vero”. Poi ho letto i giornali e la cronaca giudiziaria. A quel punto ho deciso di scrivere questa che vuole essere una lettera aperta, da parte di una donna che, pur non avendola mai conosciuta personalmente, ha sempre scritto e parlato di lei, non come simbolo dell’anti ‘ndrangheta (i simboli non appartengono alla storia delle donne), ma semplicemente come una donna tra le tante che, giorno dopo giorno, lottano, anche in questa terra, per poter affermare la propria libertà e riappropriarsi della propria vita. Lei aveva scelto di affermare il suo desiderio di donna stando nelle istituzioni, come le altre sindache con cui ha stretto una relazione politica forte, in nome della buona politica e della buona amministrazione.

“Carolina Girasole è una delle tante donne che stanno dimostrando che anche in Calabria è possibile la buona politica e la buona amministrazione, lontane dal malaffare e dalla complicità mafiosa. La sua esperienza, come quella che stanno portando avanti altre donne quali Maria Carmela Lanzetta, Annamaria Cardamone, Elisabetta Tripodi ed altre, presentate in modo riduttivo dai mass media come “sindache anti-‘ndrangheta”, credo che ci parli innanzitutto di passione politica, di amore per il proprio paese e la propria terra, che è amore per la madre, di desiderio libero femminile di amministrare con trasparenza e correttezza. La ‘ndrangheta non ama la buona politica e la buona amministrazione. Ecco perché ha combattuto Carolina e combatte le altre, cerca di fermarle con violenze e intimidazioni. Chiamare Carolina Girasole e le altre “sindache anti-‘ndrangheta” non rende giustizia al senso libero della loro differenza, ingabbiandole in un immaginario mass-mediatico che vuole la Calabria terra di ‘ndrangheta e anti ‘ndrangheta. Carolina come Giuseppina (Pesce) e le altre sono donne accomunate non dalla lotta alla ‘ndrangheta ma dal desiderio di libertà per sé, per i propri figli e figlie e per la Calabria tutta.                 

E gli uomini di ‘ndrangheta le combattono, innanzitutto per tutto questo. Non so se Carolina sarà rieletta sindaca e se Giuseppina riuscirà a ricostruirsi una vita, dopo aver pagato il suo debito con la giustizia, ma stiano sicure che niente e nessuno potrà cancellare il valore delle loro scelte con cui hanno segnato questa terra”.

Cosi scrivevo su questo giornale appena  qualche mese fa, prima delle elezioni amministrative a Isola Capo Rizzuto, rispondendo a un editoriale del direttore Matteo Cosenza che generosamente ringraziava Carolina e Giuseppina Pesce, per la “speranza di cambiamento” che rappresentavano per la Calabria. Per anni, il nome di Carolina Girasole l’ho portato in giro tra le donne di tutta Italia e nelle aule scolastiche, tra le mie alunne, come testimonianza di una realtà femminile che è già cambiata e sta cambiando la Calabria.

In nome di tutto questo chiedo pubblicamente a Carolina Girasole di dire chi è veramente e come è arrivata ad amministrare il Comune. Smentisca tutto quello che ho scritto su di lei. Ogni donna che sceglie di entrare nelle istituzioni, che lo sappia o meno, deve rendere e rende sempre conto alle altre donne di quello che fa, di come agisce e di come si rapporta a uomini e donne in quei luoghi. Carolina deve rendere conto, del suo operato e delle accuse che le vengono mosse dai magistrati, a tutte le donne come me, che hanno creduto e credono ancora in lei.

Aspetto, pertanto, che lo faccia con una lettera pubblica alle donne calabresi.

Franca Fortunato

(sul Quotidiano della Calabria del 05.12.2013)

per approfondire

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Una copertina e sedici pagine dedicate dalla rivista svedese Dagens Nyhetera a Rosy Canale e al Movimento delle Donne di San Luca nell’ottobre del 2011. Peter Loewe autore del servizio aveva visitato San Luca e Polsi l’anno prima in occasione della festa di settembre.  

Un altro caposaldo è caduto?

E’ notizia di oggi che Rosy Canale è agli arresti domiciliari, nell’ambito dell’inchiesta Inganno, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Sei ordinanze di custodia cautelare per associazione a delinquere di tipo mafioso, per reati contro l’amministrazione pubblica, finalità agevolative nei confronti di cosche, giro fittizio di beni.

L’aggravante delle finalità agevolative nei confronti della ‘ndrangheta non riguarda, stando alle notizie, l’imputazione per Rosy Canale che è invece di peculato e truffa aggravata. Reato verso la socialità comunque grave.

Rosy in questi giorni (appena ieri al Teatro Morelli di Cosenza) era impegnata in uno spettacolo teatrale itinerante chiamato Malaluna, come il locale discoteca-ristorante da lei gestito a Reggio. Malaluna. Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno, musiche di Battiato, ispirato al libro La mia ‘ndrangheta di Emanuela Zuccalà (giornalista di Io Donna/Corsera) e Rosy coautricepubblicato dalle Edizioni Paoline, 2012.

“Quando mi hanno proposto lo spettacolo, ero spiazzata, non sono un’attrice, poi ho capito che il teatro poteva essere un’opportunità per sensibilizzare. All’inizio rivivevo il vissuto, mi commuovevo, piangevo, poi il regista mi ha aiutato a controllarmi, ed è diventata un’esperienza magica”.

Una sfida aperta. Il Movimento delle donne di San Luca infatti da lei fondato con epicentro proprio nel paese ha raccolto circa 400 donne. Tutto inizia con la sua ribellione allo spaccio di droga imposto nel suo locale, viene malmenata gravemente e avrà bisogno di tre anni di riabilitazione. Il suo impegno non poteva essere finto. Premi, riconoscimenti. Un’icona.

L’inchiesta Inganno era partita nel 2009 ed era tesa ad accertare come parte delle risorse ricevute per il sostegno del Movimento delle Donne di San Luca abbiano avuto un utilizzo privato da parte della fondatrice, e come una ludoteca non abbia mai svolto attività, sebbene inaugurata nel 2009, provenendo da un bene confiscato ad una cosca. (fonte newz.it)

E ora? Una buccia di banana? Rosy dovrà chiarire si spera onorevolmente la vicenda in cui è incappata. E intanto lo stesso sgomento di Franca Fortunato ci attanaglia.

Rosy spiegaci.

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Le madri

madri nuragiche(Le madri – bronzetti nuragici, da Giovanni Lilliu, 1966)

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

LA SENTENZA della Corte di Cassazione, che ha confermato l’affidamento della figlia minorenne alla madre separata, che convive con un’altra donna, la trovo un capolavoro di riconoscimento giuridico dell’amore femminile per la madre. Protagoniste tutte donne. Donna anche la presidente della Suprema Corte, che ha emanato la sentenza, Maria Gabriella Luccioli, che già nel marzo scorso aveva sancito che i <i gay hanno diritto a una vita familiare>.

La sentenza riconosce quello che le donne sanno da sempre, che una famiglia di sole donne non rappresenta un pericolo per una crescita “sana” ed “equilibrata” di una bambina o di un bambino, e aggiunge che non c’è  alcuna “certezza scientifica” o “esperienza” che provino il contrario. Conferma della giustezza della sentenza viene da alcune testimonianze riportate da  Repubblica (12.01.2013).

Morena, 21 anni, cresciuta con la madre e la sua compagna, anche lei madre di una bambina, così racconta: < Come sono cresciuta? Serena, felice, forte, amata, anche se non è stato facile mettere insieme le nostre quattro vite … Alle scuole medie è stata dura, avevo diviso il mondo tra gli amici che potevano capire e quelli che mi avrebbero emarginato. Ricordo le loro facce stupefatte … Poi al liceo è cambiato: della mia storia ne ho fatto un punto di forza, ho iniziato ad aprirmi, a far sapere ai prof. e agli altri che esistono famiglie diverse, gay, lesbiche, e che si può essere figli e felici anche in famiglie così. Oggi ho un legame fortissimo con la mia famiglia tutta di donne. Mi sento forte, sostenuta, il mio compagno Renè le adora>.

Livia, 13 anni : <L’unico luogo in cui mi sento a disagio è la scuola, se i miei compagni vengono a sapere che mia madre è lesbica mi insultano senza pietà>. Fa la terza media e dice di vivere in una <famiglia allegra e calda, dove tutti i parenti rispettano la scelta di mia madre, anche mio padre. C’ è un mio amico di classe che viene preso in giro ogni giorno perché non guarda le ragazze, “sei gay, sei f…” gli dicono. Per questo la mia storia l’ho raccontata soltanto a pochi amici fidati e ad alcuni prof. Spero che la scuola cambi. Magari alle superiori. Perché con mia madre e la sua compagna io sono felice. Ci vuole tanto a capirlo?>.

Sara 11 anni, figlia avuta con il seme di donatore: <Per me questa è la normalità – racconta – , non ne conosco un’altra, e mi sento serena così. I miei amici dicono che ho una famiglia simpaticissima. Alle scuole elementari non ho avuto alcun problema, adesso che sono in prima media capisco che le cose sono diverse, potrebbero prendermi in giro e magari non racconto tutto a tutti. Un padre? No, non mi manca, le mie madri mi bastano. Può sembrare strano ma siamo felici>.

Che cosa c’è di sconvolgente in questi racconti di vita, per gli uomini della Conferenza episcopale e per i politici alla Giovanardi e Gasparri?  Di quali conseguenze devastanti “per la prossima generazione” parla l’arcivescovo Vincenzo Paglia? Di quale “pericolo per la tutela della prossima generazione” parla l’Avvenire? Lo sanno o no che in Italia le figlie e i figli, biologici o adottivi, di coppie omosessuali sono 100 mila e in Usa 14 milioni?  Come fanno a non capire che le loro parole rafforzano paure e pregiudizi?

In molti Paesi europei come Gran Bretagna, Spagna, Svezia, Belgio, Olanda, l’adozione per coppie omosessuali è legale. Ai vescovi, uomini di poca fede, e ai politici, uomini di grande malafede, risulta che in quei Paesi ci siano state le conseguenze “devastanti” di cui (stra)parlano? E’ significativo che gli “sconvolti” non abbiano speso una parola di condanna nei confronti del padre che “si è allontanato dalla bimba – come si legge nella sentenza – quando aveva solo dieci mesi, ha usato violenza con la sua compagna e si è sottratto agli incontri protetti con la piccola”. Forse avrebbero preferito che la bambina venisse affidata a lui o sottratta alla madre e data in adozione, in nome dell’interesse della minore? La verità di tanto sconcerto, forse, sta solo nel fatto che la sentenza ha riconosciuto che si può essere felici anche senza un uomo.

Franca Fortunato 

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Indennizzo dello Stato a vittime di reati gravi e intenzionali

Una nostra amica interlocutrice, che chiameremo Giovanna, ci scrive.

Salve, trovo il vostro articolo molto interessante e vorrei porvi un quesito. Se una persona subisce comportamenti di stalking, tentato sequestro e comportamenti da parte di una terza persona che per mancanza di prove non viene imputata, può la persona che subisce i danni psicologici e non solo chiedere un risarcimento allo Stato? Se si in che modo dovrebbe muoversi? Avendo come conseguenza l’annullamento di se stessa e gravi blocchi psicologici?

Grazie

Cara Giovanna, ci scuserai se non siamo state tempestive nel risponderti, ma abbiamo preferito rivolgere il tuo quesito direttamente allo Studio Ambrosio&Commodo di Torino, studio che aveva patrocinato la causa promossa da una ragazza per un grave episodio violento subito nel 2005.

***

Sintetizziamo il presupposto normativo e il precedente giudiziario che origina il quesito di Giovanna.

Il Tribunale di Torino, con sentenza emessa dalla giudice Roberta Dotta nel 2010 (n. 3145/10 del 6 maggio 2010), aveva riconosciuto l’inottemperanza dello Stato italiano alla direttiva europea che obbliga gli Stati membri a costituire un fondo per indennizzare la vittima di reato grave e intenzionale qualora non venga risarcita dal danneggiante, per mancanza di risorse economiche o per irreperibilità o altro.

Quindi condannava la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in primo grado, ad un indennizzo di 90.000 euro per le conseguenze morali e psicologiche subite da una ragazza rumena sequestrata, seviziata, stuprata da due connazionali prima irreperibili, poi arrestati e condannati, ma senza risorse per risarcire i danni.

Risultato che è uno sfondamento enorme nei confronti degli arcaici arroccamenti o perduranti noncuranze istituzionali, e che produce per un verso civiltà giuridica e per un altro giustizia sociale.

Per questo la sentenza può essere definita storica.

Nell’atto introduttivo gli avvocati Marco Bona e, dello Studio Ambrosio&Commodo, Stefano Bertone, Renato Ambrosio, Stefano Commodo avevano assunto che lo Stato Italiano non aveva ancora attuato la tutela risarcitoria che la legislazione comunitaria aveva imposto agli stati membri, con decorrenza dal 1° luglio 2005, a favore delle vittime di reati intenzionali violenti. Nonostante gli inviti e la procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea avanti la Corte di Giustizia CE nel gennaio del 2007, conclusasi con una sentenza di condanna dell’Italia (29.11.2007). []

Costituendosi in primo grado la Presidenza del Consiglio, con diverse eccezioni di nullità, aveva contestato la domanda dell’attrice. La sentenza di primo grado era stata quindi appellata, ma anche il secondo grado di giudizio, con motivazioni pubblicate a gennaio di quest’anno, confermava l’obbligo del risarcimento da parte dello Stato.

La Corte d’Appello di Torino afferma doversi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario …

La conclusione: … Spettava, e spetta, dunque ad una cittadina rumena residente in Italia, il risarcimento del danno patito per la violenza sessuale di cui è rimasta vittima, in conseguenza dell’inadempimento dello Stato italiano alla Direttiva comunitaria del 2004. []

La sentenza ritoccava in 50.000 euro l’ammontare dell’indennizzo, oltre spese ed onorari a carico dello Stato.

E’ in corso l’ultimo grado in Corte di Cassazione, che si auspica possa riconoscere definitivamente l’inadempimento dello Stato alla direttiva comunitaria e dunque il suo onere risarcitorio nei confronti delle vittime.

***

L’avvocata Sara Commodo dello Studio Ambrosio&Commodo, specializzato in questo settore ci invia alcune note operative.

La DIRETTIVA 2004/80/CE art. 12 comma 2 impone a tutti gli Stati membri dell’U. E. di garantire – entro il 1 luglio 2005 – l’esistenza di un sistema che garantisca un indennizzo equo ed adeguato alle vittime di reati violenti ed intenzionali commessi nei rispettivi territori, al fine di superare l’ostacolo, spesso riscontrato in capo alle vittime, di conseguire dai loro offensori il risarcimento integrale dei danni subiti e patendi in quanto questi non possiedono le risorse per ottemperare ad una condanna al risarcimento dei danni oppure non possa essere identificato o perseguito.

L’obiettivo perseguito dalla Direttiva è quello di valorizzare la promessa di legalità e garantire la sicurezza di qualunque cittadino comunitario stazioni nel territorio nazionale di uno stato membro o lo attraversi, rimanendo vittima di reato intenzionale violento valorizzando la promessa di legalità.

Secondo la direttiva le CONDIZIONI PER L’INDENNIZZO sono:

a. reato violento ed intenzionale (tutte le fattispecie gravi che prevedano la ‘violenza’: dalla rapina all’omicidio volontario, alle lesioni volontarie, alle violenze sessuali…)

b. vittima sia cittadino comunitario

c. reato commesso in ambito comunitario dopo il 2005

LA DIRETTIVA 2004/80/CE NON E’ STATA OSSERVATA.

Lo Stato Italiano si è limitato a promulgare il decreto legislativo 204/2007 che riconosce l’accesso alla tutela risarcitoria solo nelle ipotesi di reati per cui siano già previste in Italia forme di indennizzo (terrorismo, Ustica, usura, Uno bianca, criminalità organizzata, reati di tipo mafioso).

La direttiva invece interessa tutti i reati intenzionali violenti.

Lo spirare del termine senza che si sia provveduto al recepimento della direttiva comporta l’inadempienza dello Stato Italiano.

LA CORTE DI GIUSTIZIA CE CON SENTENZA 29.11.2007 HA RISCONTRATO L’INADEMPIMENTO

All’inadempimento consegue il diritto degli interessati a domandare il risarcimento dei danni nei confronti dello Stato inadempiente.

A fronte di tale inadempimento il nostro Studio ha promosso, nell’interesse delle vittime da reato violento, cause contro lo Stato Italiano per ottenere il risarcimento dei danni da loro subiti.

La lettrice riferisce d’esser stata vittima di reati violenti in Italia e, se cittadina comunitaria, avrebbe titolo per agire nei confronti dello Stato.

Il fatto, però, che, all’interno del procedimento penale, l’imputato sia stato assolto per mancanza di prove rappresenta un pregiudizio che senz’altro renderebbe difficoltoso il procedimento civile nei confronti della Presidenza.

In quella sede, infatti, la lettrice sarà comunque chiamata a dar prova (testimonialmente o documentalmente) dei fatti, del danno subito e del nesso di causa tra i fatti ed i danni. Difettando di tali prove non sussisterebbero gli estremi per poter ottenere il risarcimento.

Temo, pertanto, nel caso di specie che, salvo che la lettrice non sappia acquisire prove ulteriori rispetto a quelle (evidentemente insufficienti) offerte nel procedimento penale, ella non potrà aver accesso al giudizio avverso lo Stato.

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Il bambino e la legge

Cattura farfalle

Non conosciamo le lunghe sequenze giudiziarie tra la madre e il padre di Padova, non interessa come vicenda privata, e non si tratta di parteggiare per l’una o per l’altro, marito/moglie, attrice/attore processuale. Ma per quanto si è visto nel video, del loro bambino prelevato a scuola coi metodi della cattura, vi è qualcosa di profondamente errato e quindi inaccettabile come metodo, come progetto di un’operazione della forza pubblica e per i danni che l’episodio violento, ormai strutturato nella mente del bambino, produce o produrrà. Tra dieci venti sessanta anni, su internet o una futura forma simile di memoria elettronica, sicuramente più impietosa e invadente, quel bambino è segnato a vita da quel video indelebile come un marchio a fuoco, facilmente individuabile nella persona e nel cognome.

Già dai primi titoli degli articoli sui giornali si delinea la crudezza dell’avvenimento, ma l’enfasi, la forzatura mediatica, la sentimentalizzazione non aiutano a capire, anzi distorcono qualcosa che è già estremamente complesso e che produce lacerazioni dolorose nella vita privata, lotte feroci di presupposti e contenzioso di corpi. Una guerra estesa tra famiglie, sostenuta anche dal ddl 957 di cui ricordiamo le linee in altro post.

Il presupposto secondo le notizie è che sia stata utilizzata la PAS, Sindrome di Alienazione Parentale, come strumento diagnostico – processuale. Il padre, genitore avvocato, avrà giocato con buon tiro indipendentemente da qualsiasi considerazione di merito, su ciò che avrebbe portato l’esito sperato. La parte avversa ricorre alla Pas se le è utile nella controversia, il ctu in affianco al giudice la applicherà con zelo o meno a seconda se sostenitore o non. Un dolore di stomaco non è un’opinione di chi lo subisce né deve essere un’opinione di chi lo diagnostica.

La Pas qualora introdotta e accettata nella prassi processuale ha degli effetti penalizzanti e coercitivi per principio sostenuti da una sindrome, paludata di indiscutibilità (pseudo)scientifica, ma altrettanto – e più – rigettata e non riconosciuta. Attribuisce una patologia in via deduttiva, teorizza una colpevolezza su istanza di parte, permette l’affido condiviso anche alla parte genitoriale violenta o abusante dietro il principio del diritto alla genitorialità. Brandita come arma, dove in ogni processo per separazione avremo bambini e bambine con sul capo patologie e perizie. Finisce per essere utilizzata prevalentemente contro le donne anche da quei padri padroni e violenti per ottenere l’affido condiviso o  toglierlo.

Non si vuole con questo negare né l’affido condiviso né che possa esistere una manipolazione o il plagio o danni inflitti da parte genitoriale.

La sindrome, al di là della forma utile ai fini processuali, non si può negare che possa essere riscontrata, ma non ha codificazioni accettate e protocolli condivisi.

Dice il professor Pierantonio Battistella, docente di Neuropsichiatria infantile all’Università di Padova: «La Pas è una sindrome di cui si comincia a parlare adesso, è ancora molto poco conosciuta e raramente viene diagnosticata. Nella sua vita professionale un neuropsichiatra infantile non la vede spesso e non è facile da individuare, perchè i genitori separati non di rado si accusano a vicenda di mettersi i figli contro. La Pas è una situazione di maltrattamento del bambino che attenta alla sua incolumità psichica, fisica e affettiva: è un non riconoscimento del suo diritto a essere se stesso. Le conseguenze di quanto accaduto sono quelle legate a tutte le violenze: il bimbo soffrirà di ipervigilanza, cioè starà sempre sul chi vive, avrà ansia, bassa autostima, perchè è stato attaccato dalle persone per lui più importanti. Rischia di andare incontro ad autosvalutazione, depressione e problemi del sonno, di sviluppare una personalità introversa e difensiva, gravata da un’aggressività che muta in una carica di violenza perchè non mitigata dall’affettività. Può diventare chiuso, insicuro, violento verso se stesso, perchè soggetti traumatizzati nell’età in cui hanno più bisogno di amore maturano un’instabilità capace di degenerare nel suicidio». (Repubblica 12/10/2012)

Tornando al caso del bambino prelevato a scuola e non entrando nel merito processuale.

Il giudice dispone che debba essere recuperato il rapporto tra bambino e padre, e si avvale di agenti di polizia, ma nell’ordinanza avverte: in mancanza di uno spontaneo accordo o esecuzione degli adempimenti, l’attuazione delle disposizioni saranno adottate dal padre affidativo, che potrà avvalersi – se strettamente necessario – dell’ausilio dei Servizi Sociali e della Forza Pubblica, da esplicarsi nelle forme più discrete e adeguate al caso.

Chi decide come e dove? Non certo Montessori o Piaget. Visto il clamore, gli effetti e la risonanza delle reazioni.

Diversi tentativi precedenti erano falliti: i carabinieri si erano rifiutati più di una volta di estrarre il bambino da sotto il letto di casa dove si era rifugiato, secondo una versione. E a ragione.

Viene scelto allora un luogo definito neutro per l’operazione: la scuola.

La scuola? Non è pensabile. Un luogo che per il bambino rappresenta la sua massima socializzazione, dove sta bene perché studia e ha voti eccellenti, luogo di affetti che si ricordano per tutta la vita. Un luogo che dovrebbe essere sereno e protetto, dove per fondamento il bambino deve essere tutelato e che idealmente gode di una sorta di extraterritorialità. Un luogo dove per un verso o per l’altro anche i suoi amichetti e le amichette soffriranno un turbamento, specialmente se hanno genitori separati.

Gli esecutori. Il padre e due agenti in azione, oltre ad altre presenze, e-seguono, applicano su un corpo il principio astratto dell’ordinanza giudiziale, che pure suggeriva le forme più discrete e adeguate al caso, ma comunque esercitando quel potere di coercizione su cui lo stato come struttura di potere si regge.

Infatti una ispettrice di polizia in forza all’operazione dice alla zia del bambino, che la interpella in modo concitato, di non essere tenuta a dare spiegazioni: lei non è nessuno.

Figure professionali esperte: psicologhe, agenti donne – prima donne e poi agenti in questo caso – assistenti sociali, figure conosciute dal bambino almeno avrebbero potuto interpretare il ruolo con quei tratti materni più vicini alla sensibilità del bambino.

La polizia si scusa ma contemporaneamente difende l’operato degli agenti, qualcosa non torna. Non parliamo delle difese d’ufficio a copertura. Non parliamo della politica di turno che deve ispezionare le condizioni del bambino, il bambino così dovrebbe ricevere le visite e il sostegno di circa 600 parlamentari.

Il padre sostiene l’ho salvato. A prezzo di un ennesimo trauma.

La zia munita di telecamera, vigilante perché se lo aspettavano, accorre appena si accorge della presa del bambino con grida strazianti, emozionalmente comprensibili, ma trauma si aggiunge a trauma. La questura dice che c’è un secondo video  che chiarirà, e addebita a zia e nonno l’operazione degenere, denunciandoli per oltraggio e ostacolo alla forza pubblica. Comunque sarà, i tre minuti di quel video valgono da soli per connotarli come violenza su un bambino, anche se in nome della legge.

Chi pensa: prima il bambino?

***

per approfondire:

Cinzia Sciuto MicroMega 

Luisa Betti  il manifesto

femminismo a sud

Loredana Lipperini 

Simona Napolitani blitzquotidiano

Zauberei 

***

aggiornamento 

A tutte le UDI

A tutte le donne dell’UDI

Il bambino di Padova è stato affidato/“sequestrato” dal padre, levato alla madre e mandato in una casa famiglia per una decisione del Tribunale che è basata sulla PAS “SINDROME DA ALIENAZIONE PARENTALE”, diagnosticata da uno psichiatra perito del Tribunale che sa perfettamente che questa non è riconosciuta dalla scienza medica ed è ciarpame ideologico sessista.

Rimando a tutte il Comunicato stampa firmato dall’UDI nel giugno scorso sul tema e sul tentativo violento delle associazioni dei padri separati di introdurre la PAS nella Revisione della legge sull’affido condiviso.

Penso che possa essere utile in questi giorni e ricordo a tutte che nella Convenzione abbiano posto questo punto in modo molto chiaro.

Buon lavoro

Vittoria

COMUNICATO STAMPA

 

Genitori e figli:

quale futuro per i diritti fondamentali delle donne e delle/dei figlie/i minorenni che hanno subito violenza

Ieri, alla Commissione Giustizia del Senato, si è svolta la discussione sui DDL n. 957(PDL-UDC), DDL n. 2800 (IDV).

 

Queste proposte contengono gravissime violazioni dei diritti fondamentali delle donne vittime di violenza e dei figli minorenni vittime di violenza diretta o assistita, in contrasto con quanto raccomandato dall’ONU in materia alle Istituzioni italiane rispetto alla legge sull’affido condiviso n.54/2006.

Tali disegni di legge rendono obbligatorio il ricorso alla mediazione familiare anche in casi di padri/mariti o partner violenti, a discapito delle madri e delle/dei figli minorenni, subordinando ogni decisione che riguarda i figli ad una condivisione con l’ex partner violento. Tali leggi ricordano la “patria potestà”, cancellata dal diritto di famiglia nel 1975. Inoltre si introduce la Sindrome da Alienazione Parentale quale motivazione “scientifica” a sostegno di queste norme.

Il minore che ha subito direttamente atti di violenza dal padre o ha assistito a forme di violenza fisica sessuale psicologica e verbale contro la madre o su altre figure affettive di riferimento, subisce conseguenze devastanti sotto ogni punto di vista, nel breve e lungo termine, e potrebbe riprodurre quei comportamenti.

Denunciare la violenza domestica per una donna non è un espediente per avere condizioni migliori di separazione, ma una decisone dolorosa per uscire da un trauma profondo dopo molta sofferenza, anche assieme ai propri figli, rispetto ad una persona che si è amata.

La violenza domestica è una realtà in Italia ed in Europa ancora oggi molto diffusa e poco denunciata, è secondo l’ONU la causa del 70% dei femicidi:“ Femicidio e femminicidio in Europa. Gli omicidi basati sul genere quale esito della violenza nelle relazioni di intimità”. In Italia da gennaio a giugno sono 63 le donne ammazzate dal partner.

Avere vicino un marito responsabile e rispettoso, e un padre capace di crescere i figli in maniera condivisa è la premessa per una relazione familiare positiva, è il desiderio di una madre.

La PAS, o sindrome da alienazione parentale è considerata un disturbo relazionale nel contesto delle controversie per la custodia dei figli, in cui un genitore manipola il figlio contro l’altro genitore per rivalersi. Malgrado non esista nessun riconoscimento diagnostico scientifico (DSM) della PAS al mondo, tale “sindrome” viene spesso erroneamente utilizzata nei tribunali e dai servizi sociali in Italia per decretare il diritto dell’abusante, in casi di separazione per violenza agita dal partner sulla madre e sui figli, ad ottenere una mediazione forzata e poi l’affido condiviso dei figli. È bene sottolineare che i bambini e le bambine che hanno un padre violento si giovano della sua assenza: solo così possono ricostruire un reale futuro sereno assieme alla madre.

Si ritiene di dubbia costituzionalità e lesiva dell’ordinamento giuridico italiano la volontà di introdurre della PAS (Sindrome da Alienazione Parentale); vista la sua assoluta e conclamata mancanza di validità scientifica a livello internazionale.

Le realtà che lavorano per il rispetto dei diritti umani e a contrasto della violenza maschile sulle donne e sui figli minorenni, chiedono :

– che la legge vieti espressamente l’affido condiviso nei casi di acclarata violenza agita nei confronti di partner e/o sui figli

– che sia definitivamente proibito l’utilizzo della sindrome da alienazione parentale in ambito processuale e da assistenti sociali come motivo di mediazione familiare e affido congiunto.

 Casa Internazionale delle Donne – Roma; UDI – Unione Donne in Italia Nazionale; Piattaforma CEDAW; Associazione Differenza Donna; Associazione Donne, Diritti e Giustizia; Associazione Giuristi Democratici; Associazione Il cortile; Associazione Maschile Plurale; A.R.PA, Ass. Raggiungimento Parità donna uomo; Bambini Coraggiosi; Cooperativa Be Free; D.i.Re – Donne in rete contro la violenza; Fondazione Pangea; Lorella Zanardo- Il corpo delle donne; Movimento per l’Infanzia; Zeroviolenzadonne

Per info e per adesioni :

 

UDI – Unione Donne in Italia

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Perdono ai mafiosi

Mafiosi trattati da cristiani. Esistono due Chiese.

di Franca Fortunato

Nel leggere gli interventi seguiti, su questo giornale [Il Quotidiano della Calabria, 14/09/2012], all’omelia del vescovo Fiorini Morosini in occasione della festa della Madonna di Polsi e alla lettera pastorale di Monsignore Nunnari, mi sono tornate alla mente le parole che Rosaria Schifani pronunciò nel Duomo di Palermo il giorno dei funerali del marito Vito Schifani, l’agente morto, nella strage di Capaci, insieme a Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. Allora, rivolgendosi ai mafiosi e modificando il testo preparatole dal sacerdote, che prometteva loro il perdono se solo si fossero pentiti, lei disse: <Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio… Ma loro non vogliono cambiare, loro, loro non cambiano, non cambiano>.

Dopo l’uccisione del giudice Borsellino, Rosaria fece un lungo viaggio tra le vedove di mafia e scrisse una lunga lettera ai mafiosi. Affidò il tutto al giornalista Felice Cavallaro, che ne fece un libro “Lettera ai mafiosi – Vi perdono ma inginocchiatevi”, ed. Tullio Pironti.

Nella lettera Rosaria riprende il problema del perdono e, rivolgendosi ai mafiosi, scrive: < Avete perduto, uomini senza onore. State perdendo pure i figli che guardano le vostre mani sporche di sangue. Il disprezzo vi sommergerà. Forse siete in tempo per non farvi odiare dai vostri stessi figli. Io vi perdono ma inginocchiatevi (…). Se noi ci convincessimo che non possiamo più perdonare allora finiremmo per darvi partita vinta, per ammettere che l’alternativa alla barbarie è altra barbarie, come qualcuno nella disperazione ha pensato, perché di tanti di voi si conosce tutto e la vendetta sommaria potrebbe bilanciare le stragi sommarie. E’ questo lo scenario che mi atterrisce e che deve obbligare noi, assetati di giustizia, a cercare solo giustizia e non altro (..). Io vi perdono ma dovete inginocchiarvi. (…) Voi mafiosi, voi corrotti siete nei guai, braccati nelle vostre stesse case, perché quel che io intuisco lo capiranno i vostri figli e, guardandovi negli occhi, faranno scattare l’odio per il padre. Accadrà quando scopriranno la rovina di un’esistenza e allora, come io spero, in assenza di un pentimento reale dei genitori, potranno ribaltare e violare il comandamento divino, potranno ribellarsi e rinnegarvi. Vorrei poterlo dire guardando con pietà e con amore ognuno di questi ragazzi: rinnega tuo padre, se è mafioso. A questo vorrei condannarvi signori della morte mentre la mia fede mi obbliga a parlare del perdono perché è scritto nella Bibbia e nella storia di Cristo che in croce ha invocato il Padre: < Dio perdona loro>. Debbo farlo anch’io dalla mia croce, le croci che mi avete scaraventato addosso il 23 maggio e il 19 luglio. Io invito al perdono, escludo la vendetta ma chiedo alle belve di inginocchiarsi e agli uomini di agire per fare vera giustizia (…). Ma loro non vogliono cambiare; loro, loro non cambiano>.

Il problema, perciò, – come scrive Rosaria – non è il perdono che, ogni credente, come lei, è disposto a dare in presenza di un reale pentimento, ma il cambiamento dei mafiosi, la loro “conversione” – come la chiama monsignore Morosini – che per Rosaria non verrà mai.

In attesa, comunque, che qualche mafioso si penta in seguito a una crisi religiosa – cosa che fino ad ora non è successo – resta il problema per la Chiesa di spiegare a se stessa e a tutti noi come è stato possibile che assassini abbiano potuto sentirsi a loro agio nella Chiesa. Come è potuto accadere che non sentissero alcuna contraddizione tra l’essere mafioso e l’essere cristiano.

Loro si sono sempre considerati dei cristiani. Credono in Dio, nella Chiesa di Roma, vanno a messa,  si comunicano, fanno battezzare i loro figli, fanno fare la comunione, si sposano con rito religioso (anche quando sono latitanti), fanno da padrini di cresima ai tanti che glielo chiedono, ricevono l’estrema unzione se muoiono nel loro letto e pretendono il funerale religioso, sono tra i massimi benefattori di molte parrocchie, organizzano le feste nelle processioni.

Non esiste alcun mafioso ateo o anticlericale. Come è stato possibile che vittime e carnefici siedano la domenica nello stesso banco e preghino lo stesso Dio? Come è stato possibile che feroci assassini si siano trovati in pace con Cristo e la sua Chiesa e credono contemporaneamente nel Vangelo e nell’omicidio? Domande che, partendo dall’assunto che “la religione è una componente dell’identità dei mafiosi”, Isaia Sales si pone nel suo libro “I preti e i mafiosi – Storia dei rapporti tra mafie e chiesa cattolica”, ed. Dalai, e ne dà alcune risposte convincenti. < La chiesa nel suo complesso – lui scrive – non ha considerato le mafie e tutte le organizzazioni criminali come un nemico ideologico (…). Le mafie non hanno mai attaccato alcun dogma della Chiesa, non hanno avvertito nessuna necessità di farlo. Ne è un esempio il concetto di famiglia. Le mafie si sono ispirate al concetto di famiglia prevalente nella dottrina cattolica, compreso l’aspetto della morale sessuale (…). La Chiesa ha ingaggiato una lotta ideologica contro le eresie, contro il modernismo, contro il liberalismo, contro il comunismo, contro i contraccettivi, contro l’aborto, contro il divorzio>. Un mafioso va recuperato e – come ha scritto monsignore Giuseppe Agostino nella sua lettera pastorale – “non si tratta di emettere la scomunica proclama”, cosa che, invece, la Chiesa ha fatto tranquillamente con chi ha combattuto ideologicamente.

Non si dica che non esistono due chiese, per fortuna della  Chiesa stessa. Dopo l’uccisione di padre Puglisi, così scriveva padre Fasullo sulla rivista “Segno”: < A Palermo ci sono due chiese dai comportamenti diversi. Quella di padre Puglisi che considerava insanabile la frattura tra mafia e il Vangelo, e coloro che vanno a colloquiare con i mafiosi sospinti dal desiderio di ritrovare ad ogni costo la pecorella smarrita>.

E in Calabria?  Ricordando le parole di don Tonino Bello : < Non mi importa chi è Dio, mi basta sapere da che parte sta >, credo si possa dire con tranquillità, credenti o non, al di là di ogni omelia o lettera pastorale, che Dio non sta dalla parte dei mafiosi perché – come disse Rosaria in quel Duomo – : < Troppo sangue, non c’è amore qui, non c’è amore qui, non c’è amore per niente (..).

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Perdere la nipotina

Un commento arrivato al post ‘Cara Luisa’.

Sono una nonna che ha perso una nipotina a causa della PAS. Voi signorine femministe dovreste vergognarvi a boicottare l’affido condiviso e la protezione dei bambini da questo orribile abuso.

Mia madre mi insegnò: chi regge il sacco è ladro quanto chi ruba.

E allora chi nega gli abusi sull’infanzia è colpevole quanto chi li compie.

Anna Rosa

***

Rispondiamo.

Gentile signora Anna Rosa, ci sforziamo di capire. Intanto se un dispiacere l’ha colpita, dispiace sinceramente anche a noi.

L’appellativo femministe (signorine pure, ma anche vivaci ottantenni) sembra che lei lo usi come per dire donne poco di buono, cattive, velenose, arrabbiate e violente, con gli occhi iniettati di sangue, un serpente per ogni capello. Niente di tutto questo.

Ogni donna che fa rispettare i suoi diritti, che non si fa calpestare, che non si fa trattare da essere inferiore in un certo senso è femminista. Cioè difende se stessa ma nello stesso tempo difende anche la parte cui appartiene come sesso, che subisce la stessa condizione. Questa necessità nasce dalla consapevolezza di avere tutte e tutti gli stessi diritti e doveri, una pari dignità tra donna e uomo. Se gli schiavi non avessero preso consapevolezza e non si fossero rivoltati avremmo ancora gli schiavi. Una persona o una collettività che subisce una condizione effettiva di oppressione ha il diritto di liberarsene. Per quanto riguarda le donne c’è un archetipo che dice comanda l’uomo. E’ giusto invece che né l’uno né l’altra pretendano di comandare, ma semplicemente si sforzino di dialogare e condividere, imparando a gestire i conflitti civilmente, anche se dolorosi, senza farsi giustizia da sé. Sa sicuramente che le donne cadono come mosche, una ogni paio di giorni per mano di mariti, conviventi, amanti, fidanzati, fratelli e anche padri. Senza parlare di quelle picchiate, maltrattate, umiliate. Non risulta il contrario, cioè che donne uccidano ogni due tre giorni uomini. Tragga, gentile signora, le conseguenze. D’accordo, non tutti gli uomini sono così.

Quanto all’affido condiviso e corresponsabile nessuna si sogna certo di boicottarlo. Il buon senso e la dottrina giuridica però ci dice che l’affido non può essere dato in condivisione quando vi siano stati tratti di manifesta violenza esercitata da una delle parti genitoriali. Anche sessuale, quindi pedofilia incestuosa. Il principio della condivisione non può e non deve essere quindi assoluto, ma subordinato alla condizione di fatto riscontrabile. Se vuole può dare un’occhiata qui.

E quanto alla Sindrome di alienazione genitoriale o PAS, se ripercorre all’indietro la sua storia si renderà conto che nasce principalmente come sostegno e consulenza legale e in effetti proprio al genitore di fatto alienante e abusante, consentendogli di assumere il ruolo di vittima / parte lesa e consentendogli anche, ricevuto l’affido condiviso o esclusivo, di continuare nel suo ruolo di abusante. Così, se la bambina o il bambino mostra disagio col padre, la responsabilità è attribuita alla madre che ha manipolato e plagiato tanto da far ammalare la bambina o il bambino stesso, ed ecco la sindrome, un disturbo psichiatrico addirittura conferito in via ipotetica o per deduzione meccanica su un quadro descrittivo di parte. La teoria viene divulgata a proprie spese dal suo inventore (che si offre anche di insegnarla gratis, 400 i casi di consulenze di parte affidatigli) con una sua casa editrice creata appositamente per scavalcare la peer review, cioè lo scambio di discussioni e critiche con la comunità scientifica. Chi la formula, è molto tenero con molestatori e pedofili creando una sorta di teoria ad personam, rovescia i termini e colpevolizza in ultima analisi fondamentalmente la donna. Per esempio se un marito abusa della figlia, è colpa della moglie che non soddisfa il marito, e non solo, viene raccomandato inoltre di avere tanta comprensione col genitore pedofilo perché la pedofilia, dice l’inventore, è praticata da miliardi di persone (accepted practice among literally billions of people). Chi la formula, il dottor Richard Gardner, muore suicida ferendosi più volte e poi piantandosi un grosso coltello nel cuore. L’autopsia rivelerà un quadro tossicologico (anche qui) da sostanze psicotrope.

UDIrc

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Ancora per Anna Maria Scarfò

Voltapagina - Il blog di Cristina Zagaria

Anna Maria Scarfò, l’ultimo affronto

di Cristina Zagaria

da Repubblica, pag. 24 di oggi

Alla la prima udienza, una settimana fa, erano in 23. Lunedì, alle seconda udienza, erano in sessanta. In una piccola aula della provincia calabrese, a Cinquefrondi, sezione distaccata del Tribunale di Palmi, sessanta persone, silenziose, sono accorse per dare il sostegno morale a Anna Maria Scarfò, la ragazzina di San Martino di Taurianova che ha avuto il coraggio di denunciare prima il branco, che l’ha violentata per tre anni, e poi il suo paese che l’ha minacciata di morte. Semplici cittadini, associazioni, donne si mobilitano per rompere il silenzio che per tredici anni ha avvolto la vita di una coraggiosa, giovane, donna calabrese.

L’attenzione sul processo però spaventa la difesa. A sorpresa, quattro dei 16 imputati presentano al giudice una istanza di remissione del processo sostenendo che la “pressione mediatica sulla vicenda non consentirebbe una serena decisione del giudice monocratico di Cinquefrondi”. Il giudice, Giuseppe Ramondino, sospende il processo e manda gli atti alla Corte di Cassazione. Non può fare altro. Ma ora il rischio è alto. L’equilibrio tra omertà e verità è precario. Per la prima volta il silenzio è stato rotto. Le regole non scritte sono state sovvertite. Nell’aula del tribunale non ci sono solo i parenti degli imputati, ma c’è anche qualcuno accanto ad Anna Maria Scarfò, che oggi ha 26 anni e vive in una località protetta. È la prima donna a cui lo Stato ha riconosciuto la protezione per la legge sullo stalking.

Anna Maria Scarfò a 13 anni viene violentata dal branco, dai ragazzi bene del suo paese, San Martino di Taurianova, in provincia di Reggio. Prova a denunciare subito la violenza al prete del paese, ma non riceve aiuto. Da quel giorno Anna Maria subisce le violenze in silenzio. Quando il branco le chiede di portare ai loro incontri, anche la sorella più piccola, la ragazzina (che all’epoca ha 16 anni) denuncia tutto. E si trova per la seconda volta sola. Una parte del paese si tira fuori dalla vicenda, l’altra accusa Anna Maria. È colpa sua. Lei ha provocato gli uomini. Lei è la “puttana”, la “malanova”, la portatrice di disgrazie. Minacce di morte, affronti personali, il cane ammazzato, i panni del bucato insozzati di sangue nella notte, le telefonate anonime. La famiglia di Anna Maria Scarfò si barrica in casa. La ragazza trova aiuto solo in un avvocato, Rosalba Sciarrone, che denuncia le molestie e le persecuzioni in un fitto fascicolo. Prima interviene il questore di Reggio, poi lo Stato. Ad Anna Maria Scarfò viene accordata la scorta. E l’estate scorsa la ragazza lascia la Calabria e va a vivere in una località protetta. Una parte dei suoi stupratori (chi ha scelto il rito abbreviato) è stata condannata con pene definitive, altri sono stati condannati in primo grado.

Due settimane fa comincia il processo nella sezione distaccata di Cinquefrondi contro chi ha minacciato e perseguitato Anna Maria Scarfò, dopo la denuncia. Sedici gli imputati. Tra questi anche tre dei suoi stupratori. E alcune associazioni calabresi, capofila Natalia Filianoti, della Fondazione Giovanni Filianoti, lanciano via Facebook e Twitter un appello: “Stringiamoci attorno a Anna Maria Scarfò, per non farla sentire sola di fronte al branco e di fronte a quei concittadini che l’hanno maltrattata”. L’appello viene raccolto da associazioni della piana di Gioia Tauro, di Reggio, di Catania, di Napoli, l’Udi costituisce un coordinamento del Sud (Reggio Calabria, Catania, Napoli). [il rosso è nostro]. E Anna Maria per la prima volta non è sola. Alla decisione di sospendere il processo Anna Maria Scarfò scoppia a piangere. Sconcerto tra le associazioni. A reagire è il legale della Scarfò, Rosalba Sciarrone: “Oggi è una giornata di vittoria. L’istanza è infondata e per la prima volta abbiamo rotto il silenzio e questo fa paura”.

Cristina Zagaria è srittrice e giornalista di Repubblica, ha  scritto malanova, raccontato in prima persona da Anna Maria Scarfò.

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Annamaria-Sospesa l’udienza la vita è domani

 

 

Reggio Calabria, 28 febbraio 2012

La prima udienza del processo per stalking e persecuzioni, intentato sulla base delle denunce presentate da Anna Maria Scarfò, doveva essere la prima pagina di una storia tutta diversa: per la vittima, di una serie di crimini efferati, e per il paese che si riconosce nella legalità e nella ragione.

Così non è stato: la difesa degli imputati ha chiesto la sospensione dell’udienza. Il giudice ha accolto l’istanza ed ha rimandato la decisione alla Corte di Cassazione.

Le motivazioni della sospensione assomigliano ad un’autoaccusa della Giustizia Italiana: “il clamore mediatico sollevato intorno al caso, può influenzare la corte” . Quelle motivazioni evocano anche un’accusa alla comunità: “il processo va spostato perché il contesto della sezione del tribunale anche esso è fonte di pregiudizio”.

I Giudici e le comunità del nostro paese, davvero, negli ultimi anni sono stati oggetto di una vera e propria campagna di “conformazione”, ma hanno saputo sottrarsi. Dispiace per questo ascoltare che proprio dai Giudici vengano delle sospensioni su una presunzione d’incapacità d’essere al di sopra delle parti, per di più in qualche modo additando una parte della comunità locale per “essere difforme” dallo stereotipo che la vuole connivente con i presunti colpevoli.

I motivi tecnici avrebbero potuto andare a favore dell’una o dell’altra parte, perché la tecnica giuridica prevede sempre una ragione. Tecnicamente il giudice avrebbe potuto appellarsi ad altre sentenze e principi, forse più faticosi da ricercare, per non sospendere l’udienza. Non ultima la sentenza della Corte d’appello di Torino, che appunto ha previsto l’attualità contestuale del diritto al risarcimento delle vittime di reati sessuati. E il processo è la prima forma di risarcimento!

Il processo è sospeso, per il tribunale di Palmi, la vita, per Anna Maria, continuerà ad attendere.

È falso però affermare che per ora nessuno ha vinto: ha vinto una sottile suggestione: parlare fa male perché i Giudici si offendono e perché “il clamore mediatico fa sospendere il giudizio”. Quello che per anni è stato suggerito ad Annamaria, ora viene suggerito a coloro che hanno osato sostenerla: il silenzio è d’oro e la vita è quello straccio che i prepotenti sono disposti a lasciarti. Suggerimento respinto, a norma di giustizia.

Unione donne in Italia di Reggio Calabria, di Catania, di Napoli

***

L’UDI, Unione Donne un Italia di Reggio Calabria, ringrazia quante, quanti hanno voluto manifestare la loro affettuosa vicinanza ad Anna Maria Scarfò per il nostro tramite. Ieri, come già detto, le abbiamo consegnato dei fogli, solo parole, che per lei sono sicuramente le parole da cui ricominciare a vivere.

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Processo per minacce ad Anna Maria Scarfò, 27/2/2012

   (© Anna Maria Basile-dal tribunale)

L’udienza comincia con un’ora di ritardo. Intanto scambi di saluti, strette di mano tra le uditrici, in maggioranza, venute da Reggio e dintorni, dalla Sicilia. Incroci di sguardi muti coi familiari degli imputati. Il fondo curvo come un’abside abbaglia per le molte finestre, alla scritta consueta La legge è uguale per tutti bisognerebbe aggiungere e per tutte. 

Finalmente il giudice apre l’udienza e dà la parola. Una avvocata a difesa esordisce chiedendo che il dibattimento venga svolto a porte chiuse, rileva come la montatura mediatica degli ultimi giorni possa negativamente influenzare il giudizio sereno cui hanno diritto gli assistiti. In una piccola aula, dice, sono inspiegabili così tante presenze, dunque è evidente una pressione organizzata.

Fa un certo effetto sentire una donna che per compito professionale debba difendere cocciutamente l’indifendibile, sostenere l’insostenibile contro un’altra donna.

Il pubblico ministero, donna, elenca i casi in cui sono previsti dibattimenti a porte chiuse, codice in mano, e a suo giudizio nessuno di quelli elencati dal codice può essere ravvisato, perché per fondamento una udienza è pubblica, in sostanza non può essere un espediente a difesa.

Il giudice risponde che le presenze fisiche, quando non si ravvisano altri elementi, non possono certo intimorire il giudicante. Dunque non vi sono le condizioni per proseguire a porte chiuse. L’avvocata a difesa rincalza e rafforza le sue istanze, e a sua volta il pubblico ministero ripropone la sua posizione.

Altro avvocato a difesa ripete la richiesta del prosieguo a porte chiuse, denuncia come giornali, telegiornali e media stanno montando il caso di questo dibattimento che non riguarda in senso tecnico la materia sessuale, ma solo le minacce che la parte offesa avrebbe subito, pur rientrando nella vicenda complessiva, e contesta l’assunto mediatico e le dichiarazioni della stessa vittima che un intero paese l’abbia abbandonata e minacciata. In ogni caso, sostiene, le associazioni non hanno titolo a presenziare o esercitare pressioni che di fatto sono in atto. Quindi chiede la remissione del processo ad altro giudice ed altra sede non reputando serena la sede e l’ambiente formatosi. Altra avvocata ribadisce la richiesta.

La parte civile rimarca come Anna Maria abbia sopportato il lungo processo dell’intera sua vicenda dolorosa da sola senza nessun sostegno, mentre ogni volta erano familiari e amici degli imputati a riempire l’aula. Ricorda che Anna Maria ha raccontato legittimamente in prima persona la sua storia, nel  libro Malanova scritto da Cristina Zagaria, da quasi due anni l’opinione pubblica saNelle parole calde e potenti dell’avvocata Rosalba Sciarrone si coglie non solo grande professionalità, ma sopreattutto grande affetto e una protezione quasi fisica, palpabile (Rosalba ha ospitato Anna Maria nei momenti più tragici).

L’uditorio è perfettamente silenzioso, tanti e tante stanno all’impiedi lungo i muri.

Altre battute a schermaglia nel pingpong tecnico, finché il giudice prende atto delle istanze di remissione del processo presentate dalla difesa per quattro dei sedici imputati (parecchi i contumaci). Per le gravi minacce e offese ricevute Anna Maria, dopo la scorta domiciliare, aveva accettato di essere trasferita con la sorellina in una località protetta .

Il giudice chiude l’udienza comunicando la trasmissione delle istanze alla Corte di Cassazione che invierà in seguito le notifiche di rito.

Appena arrivate, nello spazio antistante al tribunale ci siamo trovate di fronte Anna Maria. Un abbraccio. Le abbiamo passato dei fogli con raccolte le testimonianze di affetto e solidarietà pervenute sul nostro account e sul blog. Teneramente e con pudore ci ha sussurrato grazie. Ci ha ringraziato più col sorriso e con gli occhi dolcissimi, già troppo vissuti.

.

***

da Rosanna Marcodoppido

“Di sentirsi libere non ci si stanca mai”

Siamo vicine ad Anna Maria Scarfò e a quante/i la sostengono nella sua lotta per ottenere giustizia da quando a soli tredici anni iniziò il suo calvario. Vittima di uno stupro di massa da parte di dodici maschi del suo paese, S. Martino di Taurianova in Calabria, è stata emarginata e minacciata a seguito della denuncia presentata due anni dopo e trasferita in località protetta con la sorellina grazie anche alle forze dell’ordine che per fortuna hanno capito da che parte stare. Oggi Anna Maria ha 24 anni e dopo quattro processi che hanno mandato in galera sei dei dodici stupratori, questa mattina sarà presente all’udienza per le ingiurie, maltrattamenti e minacce subite a lungo a causa della sua coraggiosa denuncia.

La sua adolescenza è stata distrutta per sempre e la ferita si farà sentire a lungo, ma è stato ed è fondamentale l’affetto e il sostegno della famiglia, e la presenza al suo fianco delle tante donne che lottano per la libertà femminile, prima fra tutte la sua avvocata. In una intervista Anna Maria ha spiegato con lucido coraggio il danno psicologico subito: “dal giorno in cui ho fatto denuncia (….) ho ritrovato qualcosa che avevo perso da anni, ho ritrovato il mio corpo. E quando l’ho ritrovato non sono riuscita ad accettarlo, perché ormai lo sentivo rubato e sfruttato”. Ma, come lei sostiene “Ne valeva la pena. Di sentirsi libere non ci si stanca mai”.

Vogliamo farle sentire la nostra ammirazione e il nostro affetto tramite le donne dell’Udi di Reggio Calabria che oggi saranno presenti all’udienza insieme a tante altre associazioni.

Roma, 27 febbraio 2012 Le donne dell’Udi  Romana “La Goccia”

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Per Anna Maria Scarfò lunedì 27/2

Si moltiplicano nelle ultime ore le manifestazioni di solidarietà sui net-work e sui blog nei confronti di Anna Maria Scarfò. L’UDI dalla sede nazionale ha diramato il comunicato stampa che qui leggete e ha esteso a tutte le sue associate la conoscenza del triste episodio che su stampa e media ha avuto finora poco risalto. Saranno presenti all’udienza molte rappresentanze di altri movimenti e associazioni e non solo di donne. E’ importante non lasciare sola Anna Maria. Insieme per costruire civiltà. 

Domani 27/2, lunedì alle 15 al Tribunale di Cinquefrondi (RC) sezione staccata di Palmi, riprende l’udienza nel processo in atto, rimandata dal lunedì scorso perché uno degli avvocati degli imputati non si era presentato. (Vedi post del 20-21/2 più sotto).

 

UDI – Unione Donne in Italia

Sede nazionale Archivio centrale

COMUNICATO STAMPA

DOMANI UNIONE DONNE IN ITALIA SARA’ CON ANNA MARIA

 L’UDI, Unione Donne in Italia come sempre al fianco delle donne, sarà presente domani, nelle persona della referente di UDI Reggio Calabria, insieme ad altre realtà siciliane e calabresi, all’udienza del processo partito dalle denunce di Anna Maria Scarfò, presso la sezione distaccata del Tribunale di Palmi a Cinquefrondi (RC).

Anna Maria all’età di 13 anni era stata vittima di uno stupro di branco nel suo paese di San Martino di Taurianova (RC) che l’ha poi emarginata, giudicata e marchiata a vita con una sorta di “lettera scarlatta”.

Dopo due anni di violenze Anna Maria ha trovato il coraggio di denunciare i suoi aguzzini per tutelare la sorellina, che rischiava di diventare la seconda vittima. Anna Maria ha oggi 24 anni e vive, si fa per dire, in località protetta avendo subito stalking e minacce.

In quasi dieci anni di processi questa coraggiosa donna è riuscita a far condannare, con sentenza definitiva, sei dei suoi dodici stupratori.

 L’UDI ci sarà, al fianco di Anna Maria.

Le responsabili della sede nazionale 

Vittoria Tola e Grazia Dell’Oste

 

Via dell’Arco di Parma 15 – 00186 Roma

Tel. +39 06 6865884 Fax +39 06 68807103

udinazionale@gmail.com – www.udinazionale.org

***

vedi un servizio di Chi l’ha visto? di marzo 2010

 

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Per Anna Maria Scarfò

“Quando era in corso il processo di Anna, io difendevo un’altra donna, in una causa di separazione. Una donna picchiata e abusata dal marito. Un giorno questa mia cliente venne nel mio studio e mi disse: Avvocatessa, voi difendete la puttana di San Martino? Non risposi subito. Mi disorientarono le parole di quella donna, abusata e maltrattata. Vittima anche lei, proprio come Anna, puntava il dito contro un’altra donna. Pensai: Se ora le faccio il discorsetto sui pregiudizi e sull’autodeterminazione della donna non arrivo da nessuna parte. Allora provai un’altra strada. Le chiesi: Lei è cattolica? E lei: Cattolicissima sono. E io: E dio non dice che bisogna sempre stare da parte degli ultimi? E lei: Sì, avvocatessa, ma non degli ultimi ultimi. Quel giorno ho capito due cose: che ci sono ultimi e ultimi ultimi e che la solidarietà tra le donne non è abbastanza forte, non forte come l’ambiente, la cultura, la paura, il senso di colpa”.

Così parla l’avvocata Rosalba Sciarrone ad una presentazione del libro Malanova. La triste storia è raccontata da Anna Maria Scarfò e scritta da Cristina Zagaria per le edizioni Sperling&Kupfer. Anna Maria ha avuto l’adolescenza devastata da dodici stupratori, dodici apostoli di quel potere patriarcale, esercitato ancora sotto tutte le latitudini, dove con gradualità più crudeli e manifeste, dove più soffuse o mascherate. Che si manifesta con le imposizioni, le discriminazioni, la disparità. E con la violenza fisica, lo stupro, le uccisioni nei confronti di quelle donne che non accettano di essere proprietà del maschio. Proprietà come può essere un cane, una pecora, una casa, un’automobile, un terreno. Questo modello culturale arcaico ha condizionato le donne fino ad oggi, e condiziona ancora molte.

Ci innamoriamo ma anche l’amore si nutre degli stereotipi che ci portiamo dentro. Sei mia, sei mio, la mia vita non ha senso senza di te, non posso vivere senza di te … è il cattivo immaginario sessista che rende dipendenti, senza autostima, col senso del possesso o della sopportazione inverosimile pur di ricevere amore e attenzione. Se si cresce nel senso della libertà e del rispetto della persona, nessuna, nessuno possiede in servitù o si appropria anche per un momento della vita, del corpo dell’altro, dell’altra.

Senza leggi adeguate, senza solidarietà sociale, senza modelli costruttivi per una effettiva parità in famiglia e nella società, senza movimenti forti e attivi delle donne, e soprattutto senza intervenire nella scuola e in famiglia nell’educazione contro gli stereotipi, continueremo ad avere donne umiliate e che subiscono violenza tra le mura domestiche (70%), e una donna uccisa ogni tre giorni. Se fosse un tabaccaio o un gioielliere ucciso sistematicamente ogni tre giorni sarebbe emergenza di ordine pubblico. Le donne sono state educate nei valori tradizionali della disparità – poco o molto – tutte. Approdare (faticosamente) alla consapevolezza del diritto della propria persona è una sfida di civiltà. La sfida di Anna Maria. Se questa consapevolezza manca o non è piena e generosa manca anche la solidarietà al femminile.

Rosalba Sciarrone, esperta di difese di genere per così dire, infatti osserva: Ma ciò che riesce sempre a stupirmi è la mancanza di solidarietà al femminile: un grande errore. Come possiamo non fare fronte comune tra noi? E poi chi è stata vittima, chi ha respirato violenza sin da bambina, spesso si trasforma a sua volta in carnefice. Per spezzare questa catena ci vuole aiuto. E credo che chi ne ha la possibilità non possa sottrarsi. Io per esempio faccio un lavoro che mi appassiona, ho potuto studiare, ho degli affetti, mi ritengo fortunata: sento che è mio dovere dare una mano. Ecco perché non solo ho difeso Anna Maria Scarfò (la malanova) ma l’ho anche ospitata in casa mia per un certo periodo, quando la pressione su di lei si era fatta troppo forte.

… «Avvocato, ma voi vi prendete in casa la puttana di San Martino?», me lo sono sentita chiedere da un’altra signora che stavo difendendo da un marito violento, che con lei usava proprio lo stesso insulto. Ho dovuto ricordarle che il tribunale stava dando ragione alla ragazza, che la carità cristiana vuole che si difendano gli ultimi, ma la risposta è stata: «Chilla è davvero ultima, tutto il paese se l’è fatta…». Ecco, il lavoro che trovo più difficile è quello contro i pregiudizi. Ma, nonostante tutto, le donne che hanno il coraggio di denunciare stanno crescendo. E dopo, nessuna vuole tornare indietro…

… il prezzo che sta pagando è davvero alto: dopo otto anni dalla sua prima denuncia e quattro processi, le minacce contro di lei non si sono placate. Tanto che da questa estate ha dovuto accettare il programma di protezione che la legge sullo stalking mette a disposizione in questi casi. Se n’è dovuta andare da San Martino, dalla sua casa, dalla sua famiglia. Oggi ha 24 anni e neanche uno straccio di vita privata. Ma prima di partire me l’ha ripetuto: «Ne valeva la pena. Di sentirsi liberi non ci si stanca mai». (Testimonianza raccolta da Anna Alberti per Marie Claire)

Per il 25 Novembre 2010, Anna Maria, non potendo intervenire ad una presentazione del suo libro, scrisse una lettera alle donne, piena di consapevolezza e dolore, quel dolore che può annientare, distruggere, ma che può anche far scatenare un coraggio disperato e far rinascere. Giacché disonore è avere tensione distruttiva dentro e tenerla stretta, nascosta, non liberarsene, non assumersi reponsabilità specie quando si apporta danno in modo grave e irreversibile. E l’adolescenza di Anna Maria è stata per sempre distrutta.

… Non è stato facile, credetemi. Ma ce l’ho fatta, grazie alle forze dell’ordine e al mio avvocato, Rosalba Sciarrone, che da quel giorno mi è stata sempre vicina.
Come vi dicevo, dal giorno in cui ho fatto la denuncia non è stato facile, ma da quel momento una cosa è sicura qualcosa è cambiato, la mia vita è cambiata.

Ho ritrovato anche qualcosa che avevo perso da anni, ho ritrovato il mio corpo. E proprio quando l’ho ritrovato non sono riuscita ad accettarlo, perchè ormai lo sentivo rubato e sfruttato.

… Spero di non deludere nessuno… 

Grazie Anna Maria per la grande forza civile che ti costa immensamente. Grazie Cristina, grazie Rosalba per averla amata da subito come una sorella. E agli uomini in divisa che l’hanno creduta e protetta.

***

Ieri.

REGGIO CALABRIA – La porta degli uffici giudiziari di Cinquefrondi l’ha varcata, ieri mattina, con Nadia alla sua destra e Natalia alla sua sinistra. Lei, Anna Maria Scarfò, piccola e stretta in mezzo, per la prima volta protetta da una scorta che non è quella assegnatale dallo Stato italiano nel febbraio 2010. All’udienza dell’ennesimo processo scaturito dalla sua atroce vicenda, Anna Maria si è ritrovata al fianco una ventina di rappresentanti di associazioni siciliane e calabresi. E ha capito, restandone un po’ incredula, che la battaglia solitaria durata otto anni era finita. Francesca Chirico.

Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/anna-maria-scarfo#ixzz1n1x0X1X4

Ogni pensiero, affettuosità, attestato di solidarietà che vorremo dedicare ad Anna Maria alimenterà la sua determinazione a proseguire e la aiuterà a ricostruire un suo rapporto col mondo (perduto).

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Appello per Anna Maria Scarfò

Lunedì 20 febbraio 2012, alle ore 9:00, presso la sezione distaccata del Tribunale di Palmi, a Cinquefrondi (RC), si terrà l’udienza per discutere la causa di uno dei processi partiti dalle denunce di Anna Maria Scarfò.

Anna Maria aveva 13 anni quando un branco di “belve” ha iniziato ad abusare di lei, con violenze di ogni genere, nel paesino in cui è nata e cresciuta, San Martino di Taurianova. Le violenze sono proseguite per due anni, finché Anna non ha trovato il coraggio di denunciare, spinta dall’amore verso la sorellina, su cui il branco aveva deciso di accanirsi di lì a poco.

Appena quindicenne, dunque, Anna Maria ha iniziato la sua battaglia per riappropriarsi della sua vita. E l’ha iniziata da sola e contro tutti: contro i suoi stupratori, ma anche contro il suo paese, che l’ha emarginata e giudicata e condannata, anziché riconoscerne il coraggio e starle vicino. Come fosse lei la colpevole. Come fosse una “malanova” da tenere lontana…

Quella vicinanza ora vorremmo regalargliela noi. Partendo da una presenza fisica in aula lunedì mattina e stringendoci attorno a lei, per non farla sentire sola di fronte al branco e di fronte a quei concittadini che l’hanno maltrattata. Sarebbe un bel gesto di civiltà della parte pulita della nostra Calabria e, insieme, un segnale forte proprio nei confronti della parte marcia, l’unica che andrebbe veramente e definitivamente emarginata e allontanata.

Da dieci anni Anna Maria combatte la sua lotta ed è riuscita a far condannare, con sentenza definitiva in rito abbreviato, sei dei suoi dodici stupratori. Per gli altri sei è in corso il processo d’appello con rito ordinario (in primo grado sono stati condannati anche loro). Inoltre è riuscita a fare ammonire una decina di persone per stalking.

Le “belve” e i loro “sostenitori” hanno ucciso l’adolescenza e la giovinezza di questa ragazza sfortunata e coraggiosa, ma non la sua dignità e la sua forza.

Due anni fa Anna Maria è stata però costretta a “scappare” da San Martino, ad abbandonare la sua terra a causa delle minacce e persecuzioni che continua a subire dalla “sua” gente.. Vive in località protetta, in una terra che non le appartiene, lontana dai suoi affetti, estirpata dalle sue radici per la sola colpa di essersi ribellata all’ingiustizia, alla violenza, a una mentalità mafiosa e retrograda che troppo spesso al Sud prende il sopravvento su tutto il resto.

Noi tutti abbiamo il dovere di agire, di ribellarci, di resistere contro il destino di migrazione ed emarginazione cui sembra condannato chi, in questo territorio, vuole vivere secondo giustizia, onestà, correttezza, legalità.

Aiutare Anna Maria a riprendersi la sua vita significa aiutare i calabresi onesti a riprendersi la loro terra. A far capire, alle “belve” di ogni tempo e spazio e a chi le protegge e sostiene, che le vere “malanove” sono proprio loro e che sono loro a dover essere estirpate, come una gramigna che rovina i raccolti.

Porsi al fianco di Anna Maria significa porsi al fianco di tutte quelle donne che rivendicano il diritto di vivere e di non subire. Non solo in Calabria.

Significa far sentire loro che non sono sole.

Significa premiare il coraggio della denuncia e invogliare altre persone a non tacere.

Incontriamoci, dunque, lunedì mattina a Cinquefrondi.

Mai più casi come quello di Anna Maria, mai più casi come quello di Maria Concetta Cacciola, mai più silenzio e connivenza.

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Associazione Antimafie “Rita Atria”

Fondazione Giovanni Filianoti

Le Siciliane – Casablanca

Libera – Reggio Calabria

Se non ora quando? – Reggio Calabria

UDI- Unione Donne in Italia – Reggio calabria

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Lettera aperta dei braccianti africani alla città di Rosarno

Cari fratelli e sorelle rosarnesi, siamo lavoratori africani di tante nazionalità.

Abbiamo voluto scrivere questa lettera per ringraziarvi della vostra ospitalità. Poiché negli ultimi giorni si è parlato molto di noi, abbiamo deciso di parlare in prima persona. Malgrado la triste situazione che si è verificata due anni fa, che ha fatto male a tutti, ci troviamo di nuovo insieme, nella vostra città e sulla vostra terra.

Quella situazione triste ce la portiamo nel nostro cuore, così come voi nel vostro. Noi siamo persone come voi. Vogliamo lavorare per vivere, come voi. Siamo in difficoltà quando non c’è lavoro, come voi. Emigriamo per trovare lavoro come tanti di voi in passato e ancora oggi. Abbiamo famiglie, madri, fratelli, figli, come voi. Siamo qui per cercare una vita migliore, non per creare problemi.

Per questo vi diciamo che non dovete avere paura di noi. L’emigrazione è una risorsa, economica, culturale… un’occasione di cui approfittare, noi e voi. Chi in questi giorni ha parlato di noi diffondendo la paura è responsabile per le sue parole. Noi non ci riconosciamo in quello che si è detto su di noi. Se qualcuno tra noi sbaglia, fa soffrire noi più di voi. Ma non vuol dire che tutti sbagliamo. Come quando un italiano sbaglia, non tutti gli italiani hanno colpa. Approfittando di questa occasione, noi immigrati, in particolare noi africani, vogliamo farvi sapere che siamo qui per lavorare e partecipare allo sviluppo di questa città e della regione e nel futuro partecipare alle sorti della nazione italiana.

Noi siamo fieri del nostro impegno e del nostro sudore. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Allora noi dobbiamo parlarci, capirci e insieme riuscire ad andare avanti. Purtroppo le nostre condizioni di vita non ci permettono di farlo. Dopo una giornata di lavoro nei campi, abbiamo solo il tempo per fare un po’ di spesa e telefonare a casa e poi camminare a lungo fino ai luoghi in cui dormiamo. Noi stiamo nelle case abbandonate, senza luce né acqua. E’ una vita molto dura, ogni giorno.

Molti di noi non riescono a trovare una casa in affitto. Facciamo appello alla vostra sensibilità e intelligenza: siamo persone come voi, noi dobbiamo rispettare tutti e tutti devono rispettare noi. Tutti insieme dobbiamo trovare una soluzione perché ci possiamo integrare con tutti i cittadini – di Rosarno, di Roma, del mondo…

Auguriamo a tutti buon Natale e felice anno nuovo

   (foto Nico Musella)

 

Ai lavoratori di Rosarno

Avete lasciato i vostri affetti, la vostra terra e i vostri paesaggi, le vostre lingue, i vostri immaginari, le vostre fiabe, i vostri simboli perché qualcosa più forte di tutto, di tutto questo vi ha sospinto, travolto. Voi siete qui per dolore, per l’insulto della fame e della sete, della povertà totale, per la ferocia della guerra o della dittatura, perché la vostra vita stessa è negata. Perché a voi abbiamo tolto secoli fa, e ieri e oggi.

Dovremo lavorare insieme per estirpare questi mali profondi che sembrano oggi troppo estesi e crescenti, minacciano la vita del pianeta stesso.  L’amore, l’affetto, l’amicizia, non hanno nazionalità, la solidarietà non è lusso, è un dovere. Il rispetto per le donne, per gli uomini, per gli animali e le piante, per l’acqua, per l’aria: ecco cosa dobbiamo offrirci insieme. 

Le religioni non possono separare.  Le diversità sostanziate su questi assunti universali non possono ferire. Anzi il viaggio della vita potrà diventare bellissimo proprio per le infinite bellissime cose viste e vissute che ci sapremo consapevolmente scambiare, donne e uomini, nella immensa famiglia del mondo.

In questa parte del mondo dove vi trovate, le feste di fine anno sono (erano) anche  della tenerezza e della poesia, è così che vogliamo ricambiare. Auguri.

UDI reggiocalabria

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“Non nascondiamoci dietro un dito”. Per l’istituzione di un registro comunale delle unioni civili

“Dietro il dito dei luoghi comuni, degli stereotipi o dei pregiudizi ci sono le vite di tante donne e tanti uomini, vite fatte di legami affettivi, di amore, di una casa comune, spesso di figli. Di queste storie d’amore e di convivenza ce ne sono così tante che non possono più nascondersi dietro un dito”

Oggi alle 10,30 si è tenuta a Palazzo San Giorgio la conferenza stampa relativa alla campagna “Non nascondiamoci dietro un dito”, promossa dal movimento Energia Pulita, con la partecipazione di associazioni, soggetti politici diversi e singol* cittadin*. Il progetto consiste nella sensibilizzazione sulla necessità di istituire un registro comunale delle unioni civili, omosessuali ed eterosessuali, come già hanno fatto diversi comuni (Bagherìa, Pisa, Empoli, e altri), in assenza di una normativa nazionale in merito. La stessa Regione Calabria risulta, da statuto, favorevole a una normazione sul tema.

La conferenza cade in un giorno particolarmente importante, la giornata internazionale dei diritti umani, ed è infatti in primo luogo sul piano dei diritti umani che si tratta di affrontare la questione, come è stato ribadito dai presenti.

A presentare il progetto, che non si esaurisce nella sensibilizzazione ma che torna per la seconda volta come proposta nel consiglio comunale reggino, sono stati Laura Cirella, amica dell’UDI rc e tra le promotrici del movimento Energia Pulita, i consiglieri comunali Demetrio Delfino e Nino Liotta, il presidente dell’Associazione Arcigay “I due mari” di Reggio Calabria Andrea Misiano, e l’associazione Ghineca con Silvia Raschillà.

Vorrei proporre alcune considerazioni. C’è più di un denominatore comune nelle rivendicazioni degli e delle omosessuali e in quelle delle donne.

1)      L’abisso, particolarmente profondo in Italia, tra diritti formali e diritti sostanziali. I diritti formali, nella fattispecie, propugnano parità di diritti di tutti i cittadini e di tutte le cittadine; di fatto, però, le donne sono sottorappresentate e nella vita devono affrontare infiniti ostacoli in quanto donne. Le coppie omosessuali sono le “grandi invisibili” persino nel diritto, benché la Costituzione sancisca l’uguaglianza di tutti i cittadini e di tutte le cittadine a prescindere da ogni genere di differenza.

2)      Per millenni – terzo compreso – si è ritenuto che le donne fossero per natura deboli, inferiori, sentimentali, incapaci di fare certi mestieri, materne a prescindere, maliziose per costituzione, portatrici di un tipo di ragione (la “metis”) inferiore a quella maschile (il “logos”). Delle unioni fra omosessuali si dice, parimenti, che siano contro natura. Il meccanismo ideologico è lo stesso: si strumentalizza il concetto di natura, applicandolo a uno status quo di potere che di naturale ha ben poco. Noi diffidiamo di questo criterio strumentale di “Natura” e crediamo che sia innanzitutto riconoscendo la matrice culturale, quindi variabile e discutibile, dell’invisibilità giuridica delle coppie omosessuali, ovvero delle rappresentazioni di un genere femminile “deficitario”, si possa ambire a una sostanzializzazione e universalizzazione dei diritti.

Per quanto riguarda le/gli omosessuali, inoltre, e ciò è stato anche ribadito in sede di conferenza stampa, il mancato riconoscimento giuridico delle loro unioni è persino incostituzionale (lo sostiene anche Persio Tincani nell’interessante libro “Le nozze di Sodoma”, L’Ornitorinco); di più, la legge italiana non si pronuncia affatto esplicitamente contro le unioni omosessuali. Ciò che costituisce un ulteriore incoraggiamento ad attuare, al momento solo a livello comunale (ma si spera, presto, in ambito nazionale), delle proposte per il loro riconoscimento giuridico.

L’UDI Le Orme di Reggio ha sottoscritto la proposta perché crede nell’importanza e nell’urgenza dell’universalizzazione dei diritti, che includa nel rango dei beneficiari dei diritti tutti coloro che non trovano rappresentazione giuridica, ma che esistono e che spesso subiscono le conseguenze di questo silenzio giuridico in termini di disparità di diritti. Si è parlato, infatti, delle difficoltà nell’assistenza al compagno/alla compagna malato/a, all’inaccessibilità all’eredità del compagno/della compagna defunto/a, all’inaccessibilità all’edilizia popolare e via dicendo, per le coppie di fatto.

Personalmente sono a favore dell’istituzionalizzazione del matrimonio fra omosessuali. Ma riconosco valore e importanza anche alla proposta di un registro delle coppie di fatto, pensando a coloro che concretamente costituiscono delle famiglie a pieno titolo –  famiglie anzitutto affettive, al di là dello schema, trito e ormai quasi anacronistico, di famiglia intesa esclusivamente e rigidamente come “padre+madre+figlio/a”. La società si è mossa oltre, l’istituto matrimoniale è in crisi, probabilmente anche perché sono in molti a non riconoscersi in un istituto giuridico millenario, spesso associato a criteri patriarcali, sorpassati. Con ciò non intendiamo affatto screditare l’istituto matrimoniale civile, ma prendiamo atto dell’evoluzione sociale che porta ogni anno sempre più coppie a rifiutare quel tipo di riconoscimento, e che è penalizzata per questa scelta etico-politica in modo discriminatorio.

Il silenzio giuridico porta a discriminazioni quotidiane, che è urgente superare nell’ottica di un paese civile quale l’Italia si qualifica di essere, e, nella fattispecie, di città metropolitana  quale Reggio Calabria è rappresentata mediaticamente e, si spera, presto anche sostanzialmente.

Denise

Video “Non nascondiamoci dietro un dito”: http://www.youtube.com/watch?v=uYunFu62gfA

 

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Avevo 15 anni quando conobbi mio marito …

Scavalcando ogni incombenza, non possiamo fare a meno di pubblicare questa straziante lettera di Giorgia (nome fittizio), che ripete un dolorosissimo copione, e pregando chiunque possa darle un aiuto anche di conforto di farlo contattandoci. Anche noi faremo quanto possibile per le nostre piccole forze. Giorgia sa usare da sé le parole giuste che le vengono dal profondo, e pone problemi legislativi-giudiziari della massima importanza per la difesa dei diritti e della dignità delle donne.   

Lettera di Giorgia

Salve, sto leggendo da un po’ il vostro interessante ed importante link e per quanto io abbia raccontato la mia storia tante volte a vari corpi la cui istituzione dovrebbe essere di aiuto a tutte le donne in difficoltà, personalmente, mi sento davvero delusa dai provvedimenti mai seriamente presi o presi per niente.

La mia brutta storia risale a qualche anno fa, dopo la separazione che decido di attuare per violenze psicofisiche da parte del mio ex marito durante il matrimonio. Quindi materiale porno, proposte al limite della decenza umana, umiliazioni di varia natura dietro i miei rifiuti, proposte di presenza di altre persone o la pretesa di rinchiudermi nell’armadio per assistere ad atti con altre persone etc…

Avevo 15 anni quando conobbi mio marito ma niente mi lasciava immaginare che in quel soggetto si nascondesse un vile mostro. Tutto inizia a venir fuori dopo averlo sposato. A 21 anni. Le mie perplessità diventano man mano che il tempo passa, una realtà dura da affrontare, ma arriva il mio primo figlio a 22 anni e la mancanza di coraggio mi induce a sopportare.

Le proposte oscene continuano sebbene io mi rifiuti ed il mostro continua imperterrito. Iniziai a fare il possibile per evitare mi toccasse, magari mi addormentavo insieme al bambino nella cameretta, ma non sempre riuscivo a sottrarmi. Arriva intanto la mia secondogenita, le cose sono sempre piu’ difficili ed io non faccio altro che pensare a come fare per andar via. Purtroppo paese piccolo, mentalità retrograda, pregiudizi, etc….

Apriamo un’ attività di ristorazione, la situazione precipita perchè le sue proposte da pervertito vengono rivolte anche al fornitore di turno. GLI ESPERTI LO HANNO DEFINITO UN BORDERLINE SESSUALE SOLO ASCOLTANDO LA MIA STORIA. Dopo una dura giornata di lavoro al ristorante che io stessa gestivo, compreso la cucina, le pulizie, la pulizia del pesce, due bambini piccoli, la seconda la allattavo ancora, arrivavo a casa a notte fonda, anche le 4 del mattino. Forse e’ umano che succedesse mi addormentassi per la stanchezza…. Mi svegliavo di soprassalto e trovavo lui nel letto con video porno che ” sbrigava da solo le sue faccende”.

Schifata e inorridita riuscivo a dire solo NON HAI RISPETTO NENCHE PER I TUOI FIGLI CHE POTREBBERO SVEGLIARSI E VEDERTI. Sapete come mi rispondeva? SE TU NON SEI CAPACE, FACCIO DA ME. Allora mi alzavo e me ne andavo dai miei figli. Lo so, è proprio per il bene dei miei figli che sarei dovuta andar via molto prima, ma non sempre si riesce ad imboccare la strada giusta in queste situazioni. Comunque, arriva il momento in cui decido per la separazione, sebbene lui sia convinto che la mia decisione dipenda da altro. (E’ troppo comodo per un vigliacco credere che si venga lasciati per la presenza di qualcun altro. La presenza di qualcun altro e’ vero c’è stata , ma dopo essermene andata).

Da circa sei mesi dormivo in camera con i miei figli perchè non sopportavo più niente ormai, così un giorno lo chiamai sul lavoro e gli dissi di tornare perchè dovevamo assolutamente parlare. Faccio venire a casa mia i miei genitori per rimanere con i bambini e noi usciamo. Vuole mangiare una pizza, mentre la mangiamo parlo dei problemi che ci sono e all’improvviso senza che io parlassi di divorzio, lui mi dice di aver gia’ contattato un legale per la separazione. Lì mi rendo conto che tutto da parte sua era stato programmato. Dall’ inizio. Forse dal fidanzamento. Sì perche’ poi mi e’ stato spiegato che questi soggetti sono grandi e meschini manipolatori e calcolatori. Comunque a quel punto non resta che iniziare le pratiche per la separazione. Dico che voglio tornare a casa dai bambini. Usciamo dal ristorante e la mia percezione che sarebbe successo qualcosa di brutto si rivelo’ fondata. Mi dice di volersi fermare un po’ sulla spiaggia, ma lo prego di portarmi a casa. Niente, imbocca una strada sterrata ed arriva in un parcheggio su una spiaggia. La paura è tantissima mentre gli dico che non voglio fare niente e che voglio solo tornare dai miei bambini. Blocca le portiere della macchina, mi volta con forza di spalle, mi gira le braccia indietro per bloccarmi e sebbene io ci abbia messo tutta la forza possibile per divincolarmi, gridando fino a perdere quasi la voce, mi violenta. Una violenza animalesca durata più di un’ora che mi terrorizzò al punto da pensare che quella sera non sarei tornata a casa viva.

Quando mi lasciò stremata dopo aver finito, le sue parole furono: QUESTA E’ LA PUNIZIONE CHE MERITI PER QUELLO CHE MI HAI FATTO. Mi rivestii a fatica perchè il dolore DIETRO, sì perchè la violenza carnale la subii dietro, era tale da farmi muovere molto a fatica. Dissi solo di riportarmi a casa. Arrivata a casa mia madre si accorse che non stavo bene, le raccontai, mi credette. Lo raccontai a mio padre, mi disse che non era possibile mi avesse fatto ciò. NON mi credette.

Per una settimana dovetti sedermi sui lati senza potermi appoggiare. Mia madre continuava a chiedermi cosa volessi fare in merito all’accaduto, ma riuscivo solo a rispondere aspetta, ci sono i bambini, ho paura possa fare qualcosa di più brutto se parlo. Mi crollò il mondo addosso, ero stata privata del mio essere donna, del mio intimo in maniera spregevole ed irriparabile. La mancanza di autostima non tardò ad arrivare, anche se da lì a poco lasciai quell’ essere immondo definitivamente. Questo nel 2003. Non lo denunciai. Il trascorrere del tempo non rimarginava le mie ferite, anzi, ma c’erano i bambini e dovevo farmi forza. Dovevo riprendermi perchè lui doveva essere punito per ciò che aveva fatto.

Ma trascorse il tempo e tutti gli avvocati a cui raccontavo la mia vicenda, dicevano che ormai era scaduto il tempo per la denucia e che ci volevano le prove della violenza subita. E’ vero, io sbagliai quella sera a non andare in ospedale o dai carabinieri, ma qualcuno mi dica per favore, perchè su cose di questo genere ci sono dei termini, delle prescrizioni? Perchè esiste una scadenza per denunciare uno stupratore e lo stesso stupratore deve camminare a piede libero anche se una donna che subisce trova il coraggio per parlare dopo tempo?

Dopo cinque anni, mio figlio una sera di giugno ha la febbre molto alta, telefono al padre, gli dico della situazione e che nonostante le medicine la febbre non scende, che dall’ospedale mi dicono di fare impacchi con alcool . Quell’alcool in casa non ce l’ho, così chiedo se ce l’ha lui. Mi dice: VIENI A PRENDERTELO NON POSSO USCIRE ORA CON LA MACCHINA. Io, presa dalla preoccupazione per mio figlio, mi metto in macchina e corro a prendere l’alcool. CREDETEMI, NON HO RIFLETTUTO SULLA PERICOLOSITA’ DELLA COSA. NON SAREI DOVUTA ANDARE, ALMENO NON DA SOLA. Arrivo a casa sua, mi fermo sulla soglia senza entrare e lui esce dalla porta ubriaco, mi tira dentro, mi fa cadere sul divano, usa la stessa metodologia di allora. Lo prego di lasciarmi andare e di pensare solo al figlio che sta male. Niente. Mi tappa la bocca questa volta, perche’ qualcuno potrebbe sentire, Mi minaccia dicendo: STAI ZITTA E NON GRIDARE SE NO’ TI FACCIO LO STESSO SERVIZIO DELL’ALTRA VOLTA E SE DICI A QUALCUNO ED AI TUOI FIGLI QUELLO CHE TI HO FATTO, NON SO COSA FACCIO.

Questa volta crollo davvero, perché se non mi avesse minacciata di fare qualcosa ai mie cari, SICURAMENTE sarei andata a denunciarlo. Passa un po’ di tempo prima che io racconti l’accaduto. I tempi? SCADUTI. Il procuratore capo conosce la mia storia, i carabinieri conoscono la mia storia e sapete cosa mi hanno risposto dopo essermi rivolta a loro in seguito a problemi che lo stesso soggetto mi sta arrecando ancora oggi, raccontando della violenza subita? SIGNORA…. MA TANTO E’ SUCCESSO SOLO UNA VOLTA…! Qualcuno mi faccia capire…. C’è un numero di volte stabilito dalla legge, per cui una donna dopo aver subito violenza carnale, può essere difesa? E quale diritto ha, un’arma dei carabinieri, di dire con quel tono cio che dice? Dov’è la legge che difende i diritti di donne vittime di violenza? Allora è vero gli omertosi ci sono anche in Procura…! Poi arrestano coloro la cui giustizia se la fanno da soli……………!!!!!!!!!!!!!! Oppure altre cose che mi hanno chiesto… SIGNORA, CI SERVONO DEI TESTIMONI DELL’ACCADUTO. Ma stiamo scherzando o cosa ??????????? Ma ditemi voi? Uno stupratore, violenta una donna in pubblico per cui è possibile avere testimoni oculari? DOVE SI NASCONDE LA LEGGE? NOI CHE SUBIAMO E NON VENIAMO CONSIDERATE E DIFESE NEL GIUSTO MODO, SIAMO TESTIMONI DI UNA SOCIETA’ LA CUI UNICA DIFESA A VOLTE E QUANDO CI RESTANO LE FORZE, SIAMO NOI STESSE PER NOI. Oppure chiudiamo un occhio…. TANTO…!!!! QUANTI OCCHI DI DONNE E BAMBINI CHE SI CHIUDONO PER SEMPRE DOBBIAMO ANCORA VEDERE PRIMA CHE LA LEGGE SI SVEGLI DA UN LETARGO QUASI SEMPRE VOLUTO????????????? I BAMBINI SOPRATTUTTO SONO IL CUORE DEL MONDO IN CUI VIVIAMO TUTTI, COSA SI STA ASPETTANDO? RINGRAZIO CHI HA AVUTO LA PAZIENZA DI LEGGERE TUTTO CIO’ CHE HO SCRITTO E SPERO CHE CHIUNQUE SUBISCA, ABBIA LA FORZA ED IL CORAGGIO DI PARLARE. ABBIAMO IL DIRITTO DI VIVERE LIBERI DALLA VIOLENZA….

Giorgia

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Il 76,2% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico delle donne

Dal blog di Loredana Lipperini:

L’Istat ci dice che nel 2008-2009 il 76,2% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico delle donne. Una lettrice, via mail, mi chiede un commento.
Temo che non andrà nella direzione prevista, anche perchè sto riflettendo, amaramente, sulle madri: mi ha sempre preoccupata la santificazione della figura materna che avviene, anche e persino soprattutto, per mano e mente femminile. Mi ha turbato, ieri, leggere una nota dove una mamma blogger, parlando di Vieni via con me, scriveva che avrebbe preferito  che “a parlare sulla battuta dei gay fosse stata una donna: perchè noi siamo le madri, noi donne ci dovevamo sentire offese, noi che partoriamo ed educhiamo”.
Noi siamo anche altro. Ed educhiamo in due, madri e padri. Idealizzare la maternità, pensare che tracci un recinto dorato attorno al femminile, è spaventosamente pericoloso. Perchè in nome della presunta “naturalità” del materno – contro cui si scaglia, giustamente, la Badinter – diventa consequenziale pensare alla donna solo in quanto madre, alla faccia delle scelte personali. Secondo, perchè, come sottolineavo qualche post fa,  la forsennata ricerca della  perfezione  personale dei figli (e gli altri si arrangino) ha fatto e sta facendo, ora, in questo momento, disastri. Se la cornice che imprigiona questo paese è la paura, quanto conta in questo frame  l’ossessione delle madri per la sicurezza? Non si è manifestata in ogni modo, negli anni recentissimi e non ancora trascorsi, quando i bambini d’Italia sembravano e sembrano assediati da ogni pericolo, dai pedofili ai Gormiti?
Quindi, tornando ai dati Istat: c’è un’assenza di sostegno da parte dello Stato, e lo sappiamo fin troppo bene e sarebbe ora di muoversi in proposito, e c’è una questione, al solito, di modelli. Ma qualche strumento in più per decifrarli dovremmo averlo, ora. E anche qualche strumento in più per dire, semplicemente, che una famiglia non è composta soltanto da una donna.

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LE DONNE: “CATEGORIA SVANTAGGIATA” DALLA REGIONE

Comunicato stampa delle Donne Calabresi in Rete

Ha destato meraviglia la risposta data il 27 ottobre dalla Presidente della Commissione Regionale Pari Opportunità alle sollecitazioni provenienti da moltissime donne e associazioni femminili che nei giorni scorsi hanno inondato di mail e fax la Regione chiedendo l’attuazione della legge 20 del 2007 a sostegno dei centri antiviolenza.

Da lei, per la posizione istituzionale che riveste, ci si sarebbe aspettata – o almeno auspicata – totale solidarietà rispetto alle ragioni delle donne e dei Centri in difficoltà e non certo un ingiustificato attacco ai Centri, aggravato dal fatto che le circostanze invocate a pretesto dell’inazione della Giunta non hanno nulla a che vedere con l’applicazione della legge da parte della Regione.

La Presidente Cusumano ha spostato l’attenzione dall’inosservanza da parte della Regione dell’obbligo di attivare le procedure per erogazione di contributi a favore dei Centri antiviolenza a presunte irregolarità circa la mancata predisposizione, da parte dei Centri già assegnatari dei contributi, di relazioni e resoconti sulle attività svolte.

I fatti riferiti sono però inesatti e assolutamente fuorvianti.

Vero è, invece, che l’emanazione del bando per finanziare le attività dei Centri antiviolenza è un preciso impegno che la Regione ha inteso assumere con la legge 20 del 2007, e al cui adempimento non può certo sottrarsi. Non solo, nel testo normativo vi è un espresso obbligo a concludere l’istruttoria dei progetti entro il 30 ottobre di ogni anno. Ad oggi si proclama, nella nota della Presidente della Commissione Regionale Pari opportunità, solo la generica volontà “di sostenere azioni per realizzare infrastrutture dirette a migliorare le condizioni di vita di categorie svantaggiate”, nascondendosi dietro il dito della sensibilità al fenomeno della violenza ed alle politiche di genere, mentre invece, se la Giunta Regionale avesse bene operato, avrebbe dovuto già da mesi approvare il bando per la selezione dei progetti dei centri antiviolenza, e dunque concludere il procedimento proprio in questi giorni. Solo ottemperando alle disposizioni normative si sarebbe consentita l’erogazione di prestazioni ad alta valenza sociale e favorita realmente l’azione sul territorio dei Centri antiviolenza, costretti invece, proprio a causa dell’inadempimento della Regione, a contrarre sensibilmente la loro attività o addirittura a chiudere le case d’accoglienza per mancanza di fondi, con grave nocumento anche per l’offerta al pubblico del servizio.

Il presunto ritardo nell’esibizione della relazione o dei rendiconti da parte di tutti i Centri antiviolenza che sono risultati negli anni precedenti destinatari del finanziamento, anche qualora fosse reale, non può essere certo preso a pretesto dalla Regione per omettere un comportamento dovuto. Il fatto grave è che si sia erroneamente ritenuto che le due attività fossero l’un l’altra condizionanti e che figure istituzionali, seppure animate dalle migliori intenzioni, pensino che l’azione dei pubblici poteri debba solo per questo paralizzarsi, anche a discapito di nuovi soggetti interessati a partecipare alla procedura selettiva.

Si precisa, infine, che non sono ancora scaduti i termini per l’esibizione dei rendiconti e quant’altro e che, ancor prima della scadenza, alcuni Centri hanno fatto pervenire alla Regione la documentazione di rito. Ma questo, come dicevamo, è del tutto irrilevante.

Cosenza, 6 Novembre 2010 Donne Calabresi in Rete

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“Il tacco di dio” – Recensione

“Il tacco di dio”, di Katia Colica, Ed. Città del Sole, Reggio Calabria 2009

Recensione di Laura Cirella

Il tacco di Dio è una disperata goccia di umanità, uno squarcio dolente nella fotografia di una Reggio assopita e distratta. E’ una denuncia ma non solo, è un grido disperato, è un appello al buon senso comune, alla pietà soffocata da un individualismo virulento. E’ un esempio letterario di realismo tragico, infarcito di facce, nomi, vite, storie, malattie narrate e vissute, conflitti irrisolti, battaglie perse o mai giocate.

Arghillà è il ghetto, ma Arghillà è un non luogo e può essere un quartiere di Roma, Napoli, Catania, Palermo, Milano; è un paradigma triste che si ripete negli spazi e nel tempo troppe volte.

Katia Colica racconta il ghetto con uno stile disarmante, nudo, vero, diretto con una curatissima colonna sonora metallica e rocciosa; non usa mezzi termini, ti infila nella pancia come una lama affilata le storie di questa gente, dei rom, degli abusivi, delle donne che vivono e subiscono senza troppa dignità l’emarginazione e la povertà.

Il libro mantiene due piani, uno romanzato e realista e uno tecnico e razionale.

Il piano romanzato è raccontato da Katia Colica giornalista e narratrice, collezionista di storie, donna impavida e troppo curiosa, con uno stile straordinario, doloroso, intenso e carnale. E’ un susseguirsi di vite vere di giovanissime puttane, di bambini sporchi di muco, di spacciatori e di papponi, di donne abbandonate, di madri bambine, di adolescenti cresciuti in fretta, di uomini e donne che nella povertà ormai ci sguazzano e non cercano altro perché non conoscono altro. Dove sono state nascoste queste storie? Ad Arghillà nord; tra alloggi abusivi con le finestre in cellophane e montagne di immondizia alla fermata dell’autobus che non arriva mai, che salta le corse. E questi volti rimangono li, in compagnia dei cani e dei topi, il lettore li visualizza come un misero quarto stato tristemente fermi, brutti, sporchi, cattivi, che aspettano il loro bus verso la decenza, un bus che non arriva mai.

Il piano tecnico e razionale ce lo regala Katia Colica architetto e urbanista, ce lo fornisce con innumerevoli citazioni preziose, inquadrando sociologicamente i ghetti, quello che sono e perché sono stati pensati. Progetti degenerati e fallimentari che hanno creato il Corviale, le Vele, lo Zen, il Librino, la Barriera, quartieri isole nelle più grandi città d’Italia. Tante buone intenzioni iniziali compromesse da pessime gestioni amministrative, interessi della mafia spesso in perfetta sintonia con la politica, politici stessi inadeguati ed egoisti, ma anche cittadini posseduti da paure fomentate. Cosa fa paura di un barbone, cosa di uno zingaro, cosa di un immigrato? La povertà estrema terrorizza, inquieta, disarma, inibisce, respinge. E’ la povertà di questa gente che rende questa stessa gente scomoda e fastidiosa; e quando qualcosa da fastidio è facile chiuderla in un contenitore buio lasciando un buco per far respirare. Ecco, Arghillà è questo, una scatola ben chiusa con giusto un foro per far respirare tutto l’ammasso umano che c’è stato gettato dentro. Nient’altro. Nemmeno il cielo verso cui alzare gli occhi, dove gettare una speranza o invocare un dio con una preghiera.

Il tacco di Dio è una denuncia spietata di luoghi e persone che sono stati traditi e che gridano vendetta, di una finta “delocation” della comunità Rom, di politiche sociali inesistenti, di attraenti interessi elettorali. Quelle stesse persone che occupavano l’ex caserma 208 al centro della città sono state spostate in blocco in periferia. Il ghetto esiste ancora e ha i confini ancora più marcati ma non si vede e questo è quello che conta all’amministrazione reggina. Intanto il Corso Garibaldi può essere una tranquilla passerella domenicale per la Reggio bene e persino le prostitute possono andare a vendersi fuori dal recinto del centro cittadino, lontano dalla vetrina, dalla musica estiva, dai grandi concerti e dagli spettacoli. Il centro deve essere lucido e patinato e lo stesso cittadino deve intonarsi con abiti adeguati e maschere ricamate. Che importa se a pochi chilometri da questa falsità quotidiana c’è chi spegne la propria candela prima di tirarsi su una coperta o mescola l’acqua con mezzo cucchiaino di zucchero per fare colazione, la Reggio che conta sta altrove, tra nuovi protagonisti, politici rampanti, portaborse, ruffiani e mezze calze.

Katia Colica si è infilata giu per la feritoia di questa scatola chiusa, da quel buco ha fatto uscire queste vite che hanno gridato con tutto il fiato che hanno in gola, ha costretto il lettore a spalancare gli occhi riversandogli addosso lo stesso fardello di storie che lei ha scelto coraggiosamente di incollarsi e che magistralmente riesce a raccontarci.

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La nube tossica

La scorsa domenica pomeriggio duemila automobili, provenienti dalla provincia, in gita sul luogo o sul set dell’assassinio di Sarah.

Sabrina dice del padre: ci ha preso in giro per 42 giorni.

L’amica di Sabrina: Sabrina mi ha preso in giro.

La madre di Sabrina forse …

E ultim’ora, il padre in quel momento dormiva…

E’ un’ottima infilata adesso per dimostrare quanto perfide e malefiche sono le donne di quella casa, intorno al pover’uomo … per quanto la scialuppa della seminfermità era già nella linea della difesa. Per Sabrina, se risulteranno responsabilità nel concorso o nell’atto dell’assassinio, nessuna pietà e attenuante. In quanto donna. Nella mente collettiva rivive lo stereotipo della donna diabolica, un serpente per ogni capello, la vera dominatrice di casa. Un lussureggiante plastico è riapparso per celebrare la liturgia sul topos del delitto, con i modellini delle auto appartenenti ai componenti del gruppo famigliare. []

La misoginia di default su fb e l’accanimento del processo mediatico stanno apparecchiando.

 

La storia di un padre e di una figlia dentro un mulino bianco: da leggere [].

 

Il ragazzo Alessio ventenne che con un pugno ha ucciso Maricica, infermiera rumena, un bambino, viene arrestato ma i suoi amici e addirittura fan – un centinaio, non cinque sei – insultano i carabinieri e ne gridano la liberazione. Nel senso che sì, la donna sarà morta, ma lui non voleva e poi era rumena  (… uccidine un’altra!) e attaccabrighe. Lui è dei nostri. La madre del ragazzo definisce Maricica troppo sicura di sé.

Uno ius universale condiviso nel mettere a tacere le donne, specie se sveglie, riporta di volta in volta all’ordine estremo le malcapitate. E una orrenda telenovela a puntate quotidiane ci racconta con ogni dettaglio come, dove, ma quasi mai un perché profondo.

Se il fatto fosse invertito, Alessio un rumeno, e Maricica una mamma italiana con un bambino, sicuramente una vibrazione eroica di ordine pubblico ci sommergerebbe assieme a grandi costituzioni di parti civili.

 

Il delitto nella realtà prevede già il copione televisivo e l’auto-contemplazione in una specie di second life fotogenica nel film mediatico.

 

Una vita ha valore secondo il cognome. Secondo il colore della pelle. Secondo la nazionalità e l’etnia, secondo se chi la porta è maschio o femmina, secondo se è amico o no, secondo se è giovane o vecchio, secondo se è ricco o povero, secondo che si chiami Mike Bongiorno o Domenico.

 

 

Visioni dal gusto funereo in un Caffè di Torino, quasi una preparazione alla dissezione anatomica. Per chi ricorda Rembrandt l’accostamento è fulmineo.

Imbarazzo delle modelle che si prestano a fare da nudo vassoio, contenitore inerte nel senso anche dell’immagine inanimata, morta. Imbarazzo degli avventori che fingono disinvoltura. In realtà risulta una seriosa e ridicola omologia di quell’attenzione che i presenti nel quadro prestano alla lezione dell’anatomo-patologo seicentesco dottor Tulp.

 

foto La Stampa 15/10/2010 []

Su ogni tavolo dove giacciono le modelle-vassoio un cartello avvisa: Si richiede educazione e rispetto per il lavoro delle modelle.

Per il lavoro delle modelle, sì, per le donne che possono essere anche modelle, no. Donne → modelle → lavoro: si richiede rispetto solo per quest’ultimo. Strane dieresi.

[segnala allo IAP: Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (vedi post del 28 aprile)

http://www.iap.it/it/messaggi.htm

aggiornamento:

http://www.facebook.com/event…

luogo: info@caffedelprogresso.it ]

 

 

E Boffo dopo essersi fatto dimettere dalla direzione dell’Avvenire dai vescovi, dagli stessi viene ora nominato direttore della loro TV. Doppia riabilitazione.

 

Una piccola morale di convenienza sta diventando una nube tossica enorme formatasi da sfiatatoi ben precisi. Un’antropologia piccolissimo-borghese confeziona insaccati di emozioni pensieri comportamenti moduli e modalità da interiorizzare.

 

Ci eravamo interrogate dieci giorni fa: a chi toccherà nelle prossime ore, nei prossimi giorni?

Intanto sappiamo, un anno dopo, di Lea Garofalo uccisa e sciolta nell’acido per aver avuto il coraggio di ribellarsi alle cosche di ‘ndrangheta.

Santina, Kamila, Anna, Anna Maria, Anna Maria e Eva, Paola … la barbarie delle violenze e delle esecuzioni familiari è come un flusso a regime, non puntiforme, ma equidistribuito: Treviglio, Catania, Alessandria, Caltanissetta, San Nicandro, Cagliari, Milano, Firenze, Roma … Senza dubbio nessuna città o cittadina è o verrà risparmiata alla violenza maschile che, fino alla noia, sappiamo esplode per grandissima parte in famiglia. Ed è una cultura.

 

 

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1960. Rosa Oliva è una dottoressa, ma in scienze politiche. Ha fatto dire 33 alla Corte Costituzionale.

rosa oliva

Prefetta? No!

Magistrata? No!

Diplomatica? No!

Signora generale? No!

A parte gli aggettivi tuttora  considerati stridenti al femminile, quelle carriere erano vietate alle donne: tutti i posti e le mansioni nell’Amministrazione Pubblica sia direttive che di semplice organico. Una legge ante Costituzione, del 17 luglio 1919, attiva per il principio di continuità dello Stato, ma incostituzionale.

L’art. 7 recitava:

Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengano alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento.

E l’art. 8:

Gli atti compiuti dalla donna maritata prima del giorno dell’entrata in vigore della presente legge non possono impugnarsi per difetto di autorizzazione maritale o giudiziale, se la relativa azione non sia stata proposta prima di detto giorno.

In sostanza la concezione patriarcale della società riservava ai maschi italiani, per una sorta di tacita legge salica naturale, la successione nella gestione della cosa pubblica, pur con certe concessioni collaterali come il libero accesso alle professioni e la soppressione della potestà maritale. Lo Statuto Albertino d’altra parte prevedeva solo eredi maschi per il Regno d’Italia.

Il voto per la gestione della res publica come suffragio universale viene concesso (il termine suona: ti dono qualcosa delle mie proprietà)  per la prima volta alle donne nel 1945 (governo Bonomi, proposta di legge Togliatti-De Gasperi) ed esercitato il 2 giugno del 1946 nella importante scelta del referendum monarchia-repubblica. In realtà le donne votavano già in Italia fin dal 1924, ma solo per le amministrative (la ministra Carfagna recentemente su questo si è parecchio impappinata: http://www.youtube.com/watch?v=B4jtlzSS-1c&feature=player_embedded).

Era il 1960. Le donne dunque già votavano (in Turchia dal 1923, Svizzera solo  1971), ma erano ancora gravemente penalizzate nell’esercizio dei diritti che i Padri e le Madri della Costituzione (non oso mettere prima le madri perché solo 21 su  556) avevano riconosciuto e istituito.

Rosa Oliva, una ragazza qualsiasi, fresca di laurea in Scienze politiche, appassionata degli studi appena compiuti si chiede: perché  non posso entrare nell’Amministrazione dello Stato?

Certo non potevo ignorare la disparità fra ciò che avevo studiato e una realtà che, di fatto, negava i miei diritti. Come? La Costituzione sanciva, con l’articolo 3, il principio di uguaglianza davanti alla legge. Con l’articolo 51, l’uguaglianza nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Qualcosa non andava.

Rispondendo a un bando di concorso del Ministero dell’Interno aveva fatto domanda per il primo grado nella carriera di Prefetto, essendone molto attratta.

Fu respinta, ma chiese le motivazioni per iscritto.

Si consulta col suo professore Costantino Mortati, grande giurista calabrese di Corigliano Calabro (aveva partecipato all’Assemblea Costituente), della  generazione che considera la Costituzione un’icona sacra piuttosto che scia del diavolo, e parte un’operazione che stravolgerà l’immagine e la vita pubblica delle donne.

Rosa, col patrocinio di Mortati, produce ricorso alla Corte Costituzionale e al Consiglio di Stato impugnando la norma del Regno sopra riportata – L. 17 luglio 1919, n. 1176, Norme circa la capacità giuridica della donna – per “ illegittimità costituzionale”.

Rosa vinse il ricorso.

Se la costituzione non fosse stata retta dai profondi principi pensati dai quei Padri e quelle Madri, di  uguaglianza, di parità, di giustizia, se soltanto avesse strizzato l’occhio a questa o quella lobby, oligarchia, casta, oggi la vita delle donne sarebbe stata ancora più dispari e sottomessa per potere salico.

Fu una grande restituzione dei diritti della persona, ma soprattutto dei diritti di tutte le donne per opera di una solitaria e sconosciuta sabotatrice che con mezzi legali e intelligenza ha aperto una falla nella storia tracciata al maschile, mai più richiudibile.

Grazie, Rosa Oliva.

[una delle interviste a Rosa:

http://job24.ilsole24ore.com/news/Articoli/2010/05/%20rosaoliva-apre-13052010.php?uuid=83c57ed6-5e77-11df-9173-01a2af354a3e&DocRulesView=Libero]

Sabato 11 settembre 2010 l’UDI Monteverde di Roma, l’UDI di Milano e il Comitato 503360, tramite patrocinio della Provincia  di Roma, hanno celebrato il 50° anniversario della Sentenza n.33/13 maggio 1960 della Corte Costituzionale con una conferenza, “50 Verso la parità – Responsabilità individuali e responsabilità collettive delle donne”, che si è tenuta presso l’Aula Consiliare di Palazzo Valentini, a Roma.

M. M.

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Esecuzioni

Riceviamo da UDI Monteverde e immettiamo. 

LE DONNE FANNO STORIA

Vi trasmetto il comunicato che abbiamo inviato oggi.

Saremo presenti anche al sit-in davanti all’Ambasciata iraniana, alle ore 16.30, via Nomentana 363, con il nostro STOP FEMMINICIDIO. Carla Cantatore

 

Sakineh

Condannata a morte Carla Bruni, definita la “ PROSTITUTA ITALIANA” che ha scritto nella lettera a Sakineh «Versare il tuo sangue, privare i tuoi figli di una madre? Perché? Perché hai vissuto, perché hai amato, perché sei una donna, un’iraniana? Ogni parte di me rifiuta di accettare questo».

NO non accettiamo, SI’siamo tutte prostitute.

L’opinione pubblica internazionale si mobilita per salvare la vita a Sakineh Mohammadi-Ashtiani.
L’Italia espone la gigantografia di Sakineh sul Palazzo del Ministero delle Pari Opportunità

Da ogni parte si stanno moltiplicando petizioni e richieste ufficiali a Teheran per salvarla.

La Francia esorta l’Ue a minacciare sanzioni contro l’Iran se Sakineh verrà lapidata, e chiede all’Alto rappresentante dell’Unione Europea Catherine Ashton, che venga inviato un messaggio comune dai 27 Paesi Ue all’Iran per salvare la donna. Stati Uniti e il Brasile, le hanno offerto asilo per tentare di salvarle la vita.

Salvarla, sì il minimo, per quale vita però? Sakineh è stata condannata nel 2006. La pena è stata confermata nel 2007 dalla Corte Suprema iraniana. Sakineh afferma di essere stata costretta a confessare, e frustata, secondo la denuncia di Amnesty International.  Oggi otto donne e tre uomini si trovano attualmente nei bracci della morte del paese, in attesa della lapidazione. La lapidazione resta in vigore, in diversi paesi o regioni, tra cui, oltre all’Iran, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Nigeria, il Pakistan, il Sudan e lo Yemen. La lapidazione può anche essere introdotta come è successo in Indonesia nel 2009.

Le pietre non devono essere così grandi da far morire, in questo caso la condannata, lanciandone solo una o due, ma non devono nemmeno essere così piccole da non essere pietre.

Chi scaglia le pietre dunque avrà diritto a tutto il tempo necessario a scegliere la pietra “giusta” per far soffrire tanto e a lungo.

Secondo Amnesty le lapidazioni vengono eseguite anche da attori non statali.

Anche da noi avvengono  esecuzioni private, poiché questo è il femminicidio, esecuzione capitale senza processo, per mano di uomini, per capriccio, in casa o in macchina preferibilmente, per infliggere sofferenza e guardarle.

Dolori d’amore? Tradizione culturale? Atto di fede?

 

STOP FEMMINICIDIO

Il FEMMINICIDIO è la summa teologica delle tante violazioni dei diritti universali dell’umanità, che ovunque alle donne capita di subire.

L’ONU si assume la responsabilità di definire lo stupro crimine di guerra?  E il FEMMINICIDIO?

La dimensione di genere, che nella violazione di questi diritti è da considerarsi cruciale, deve essere considerata punto cardine dei diritti universali dell’umanità.

Nel 2008 il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha votato all’unanimità la risoluzione 1820 che definisce lo stupro un’arma di guerra, “un crimine di guerra” e “contro l’umanità“. Si impone “l’immediata e completa cessazione” di “tutti gli atti di violenza sessuale contro i civili” e “l’adozione immediata di misure per proteggere i civili, comprese donne e bambine, da tutte le forme di violenza sessuale“.

Ora occorre una analoga risoluzione circa esecuzioni capitali e torture di ogni tipo alle quali vengano sottoposte le donne in quanto tali, sia in condizioni di evidente conflitto bellico, sia in condizione presunte di pace.

Poiché la pace deve valere per tutti, donne e uomini, negli eserciti come nelle case.

Poiché non si potrà più affannarsi per il raggiungimento di un empowerment femminile nascondendo alla vista e alle coscienze il grave pericolo di morte che incombe sulle donne.

Ma la vita delle donne prima di tutto deve essere garantita, come recita l’articolo 3 della dichiarazione: ogni persona ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza.

Ma questo non sarà possibile finché sarà ammesso che la libera scelta di un amore di donna possa  essere considerato delitto, e la pena la morte.

E finché la tortura di una donna sarà concessa perché donna, anche in presunte condizioni di pace, in questo nuovo mondo nel quale le guerre non vengono più dichiarate e la maggior parte delle violenze è diretta contro la popolazione civile, e le peggiori atrocità contro i non combattenti ma soprattutto le non combattenti, e non vi sarà un nuovo patto di rispetto fra donne e uomini in nome della perpetuazione dell’umanità, non si potrà dire o presumere di aver fatto il nostro dovere di esseri umani capaci di amore e giustizia.

Una gigantografia di Sakineh su un palazzo governativo a Roma vuole esporne l’immagine di questa donna per salvarle la vita e per testimoniare l’esecrazione di un paese per chi vuole invece annientarla. Così questa vita o morte di donna entra a pieno diritto nella Storia degli uomini e delle donne, lei, una per tutte, le vittime della Cronaca giornaliera.

Lo stesso paese che vede a braccetto, nello stesso momento, il proprio rappresentante e l’uomo avvolto nel mantello, fra feste sardanapaliche, queste sì spudorate nel mentre che le famiglie vengono cacciate dalle case di cui non riescono più a pagare i mutui, gli uomini perdono il lavoro e le donne ancor di più.

E attraverso la tv assistiamo impotenti e attoniti a presunte e superpromozionate conversioni di giovani donne, prescelte o acquistate da quel tipo d’uomini, coloro che non scherzavano quando si autodefinivano “utenti finali”.

Sempre la tv, quella in cui Sakineh fu costretta a confessare quella che non può essere chiamata colpa.

Anna Maria Spina

UDILab Monteverde

 

La gigantografia di Sakineh in piazza Colonna a Roma (Adnkronos)

E oggi, 2 settembre, l’ennesima dal bollettino delle esecuzioni. Milano. Prima un colpo nel cortile, poi prende la mira dal balcone e uccide Teresa.  Si stavano separando.

 

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Per un’economia femminile

Troviamo su fb che a sua volta cita ipsnoticias una interessante intervista a Rose Maria Muraro. Molti spunti, suscettibili anche di qualche obiezione, in ogni caso gli argomenti sono cruciali e anche l’approccio. L’obiezione principale è: perché relegare ancora una volta le donne nel rango della cura? Benché trasformare una condanna storica in riscatto di genere possa essere segno di pragmatismo e operatività, resta problematico riproporre lo schema storico della cura come caratterizzante in quanto tale il genere femminile.

Intervista  del  quotidiano IPS a  Rose Maria Muraro madre del femminismo brasiliano, autrice di 35 libri. Muraro si mantiene produttiva e combattiva con i suoi 79 anni ed ha annunciato una nuova opera per il 2011 con proposte per un’economia di cooperazione e solidarietà che recupera valori come il baratto e incorpora una prospettiva di genere per lo sviluppo.

E’ nata quasi cieca e solamente a 66 anni grazie ad un intervento chirurgico è riuscita ad ottenere la vista.

Ma la sua menomazione  non le ha impedito di studiare Fisica ed Economia, sposata da 23 anni ha cinque figli, di dare  impulso al femminismo brasiliano e  di opporsi  alla dittatura militare che ha governato il paese dal 1964 al 1985. Né ha ostacolato il ruolo di divulgatora della Teologia della Liberazione attraverso “Vozes” rivista cattolica che ha co-diretto con il teologo Leonardo Boff.

IPS:  Come spiega che le donne pur avendo un grado di istruzione maggiore a quello degli uomini, guadagnano di meno e patiscano la disoccupazione?

RMM: Qualcosa sta migliorando e le donne guadagnano  circa il 90% di quello che guadagnano gli uomini. Un grande ostacolo è la scarsa rappresentanza femminile nelle legislature nazionali, degli Stati e a livello locale. Le donne tendono a votare per gli uomini. Abbiamo bisogno di campagne per il voto alle donne.

IPS: Perché le donne non riescono a farsi eleggere pur rappresentando la maggioranza dell’elettorato?

RMM: Grazie al pregiudizio interiorizzato che le donne sono esseri inferiori. Abbiamo ancora una maggioranza di donne conservatrici, che difendono il patriarcato e considerano l’uomo più adatto a governare. E visto che sembrerebbe più ‘naturale’ che gli uomini abbiano più probabilità di essere eletti, i partiti danno ad essi più risorse. Le candidate quindi hanno meno visibilità e meno risorse economiche in campagna elettorale. Abbiamo avuto però una rivoluzione con la pillola abortiva. Quarant’anni fa vi erano solo il 5% di donne parlamentari, oggi il doppio. Il Brasile è uno dei paesi con il più basso indice di rappresentanza, lontano dal 50% dei paesi del Nord Europa, ma stiamo cercando di migliorarlo grazie al lavoro  femminista.

IPS: In Brasile è stata stabilita una quota femminile del 30% nelle candidature dei partiti. Non crede che questo aiuti una maggiore partecipazione?

RMM: Molto poco, perché i partiti non si conformano e l’assenza di autostima alle donne giudicate inferiori,  fa si che essa rimanga inapplicata. Poi, c’è il problema delle candidate “arancia”figlie, mogli, sorelle dei candidati più conosciuti  che si succedono. E’ un meccanismo perverso.

IPS: Non è in contraddizione con la superiorità scolastica e l’istruzione universitaria delle donne?

RMM: La scolarizzazione da sola non basta. E’ necessaria un’educazione specifica di genere. Che non si dividano i giocattoli per le femminucce e per i maschietti, che i ragazzi e le ragazze pratichino lo stesso sport e non le le bambole per le bambine e il calcio per i maschietti. Dobbiamo cambiare l’educazione sessista.

IPS: Però l’insegnamento  è in mano alle donne, le donne dominano nella docenza.

RMM: Fisicamente non culturalmente. E’ necessario formare insegnanti per l’educazione di genere. Bisogna allora cambiare i libri. Il vocabolario è impregnato di sessismo, la grammatica è diretta all’uomo e potete immaginare com’è la mentalità delle persone. Il compito è enorme e richiede generazioni  perché il cambiamento è più profondo e quindi più lento.  E’ da trent’anni che lotto solitaria ed isolata. Adesso la società mi riconosce. C’è stato il progresso, ma non la vittoria, perché questa parola interiorizza la competitività maschile.

IPS: Lei collega la parità tra i sessi al cambiamento dell’economia. Perché?

RMM: Si, perché l’economia è ancora di sesso maschile. Il che significa il dominio e la concorrenza, la matematica del successo, la massimizzazione degli utili. La visione delle donne è all’opposto, collaborazione, sviluppo di un’economia di solidarietà, il successo della persona e non gli utili.

IPS:  Come si concretizza l’economia al femminile?

RMM: Con il microcredito ad esempio, che è destinato ai poveri e alle donne indigenti. Nell’esperienza dell’economia solidale con monete complementari.

L’economia di ‘cura’ (bambini, anziani, malati) è nettamente al femminile e poco valorizzata sul mercato. Le donne  secondo le Nazioni Unite, rappresentano il 90% delle badanti. La donna al potere cambia la natura del denaro. E’ quello che spiego nel libro “Reiventare il capitale monetario”, che dovrebbe essere pubblicato nella prima metà del 2011.

IPS: Lei ha anche scritto ” Dialogo per il futuro” assieme all’economista americano Hazel Henderson, dove propone di cambiare le misure e il concetto del Pil

RMM: Il Pil racconta la ricchezza e il gioco dei soldi e  le risorse che si perdono, per esempio il petrolio, viene esportato e non è rinnovabile. Non tiene conto dell’ inquinamento,della deforestazione, del degrado del territorio. La distruzione della specie umana è

dovuta all’uomo che ha promosso il super-consumo e non  paga per  l’inquinamento.

IPS:  Il femminismo coinvolge altra scienza e tecnologia?

RMM: Si, le donne hanno un diverso modo di fare scienza, una scienza collaborativa, una scienza per la , per la distribuzione a tutt* ,mai patentaria come quella di Craig Venter (biologo americano che ha guidato il progetto privato sul genoma umano).

Perché? Perché si fa carico del feto, nutre il neonato, si prende cura di tutti.

Altri dati delle Nazioni Unite indicano che è femminile l’80% della militanza ecologista ; 90% quella contro la militarizzazione ;70% contro la povertà.

Fonte: http://ipsnoticias.net/notaasp?idnews=96159

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L’insospettabile 2

 foto från Aftonbladet

 

Se  Maria Carlshamre [vedi post prec.] tenta di aprire la prigione delle vittime, Göran Lindberg ci conduce nell’acquartieramento  dei violentatori. Ventitré capi di accusa tra cui sadismo, crudeltà, stupro, molestie e violenze fisiche, associazione per delinquere a sfondo sessuale, intermediario in un giro di perversione. Almeno undici adolescenti violentate e seviziate … minacce in puro stile mafioso: so dove abiti, carina …

Era stato beccato dalla polizia mentre andava all’appuntamento avendo adescato una 14enne. In macchina i ferri del mestiere: corde, catene, bavagli, manette, altri oggetti di godimento … e  naturalmente viagra.

Il massimo dell’insospettabilità. Capo della polizia di Upsala per nove anni fino al 2006 e direttore dell’Accademia di polizia. Consulente del governo, faceva perfino conferenze del tipo donne e violenza per conto dell’ONU, come esperto sulla parità di genere e sull’abuso nei confronti delle donne. Un perfetto mix di teoria e pratica.

Il 29 giugno scorso tutta la Svezia lo vede davanti ai giudici dove la Pubblica accusa gli rovescia una caterva d’immondizia accusatoria. Si difende, sì ho pagato qualche prostituta, ma non ho mai usato violenza. E’ tutto falso. Ho sempre pagato e ho avuto rapporti equilibrati.

Le testimonianze invece schiaccianti: «Si sedeva su di me, fino a togliermi il fiato … Mi ha stretto le mani al collo, sono diventata cianotica» (Corsera, 30 giugno,2010).

La grande metafora del potere totale è vissuta di nascosto in un ciclo completo di sottomissione fisica del corpo femminile, con delirio di piacere e annientamento.

Un altro shock nazionale nella Svezia genericamente tranquilla. Tutta la nazione segue il caso. A fine luglio (impensabile in Italia) il tribunale di Sodertorn lo condanna a 6 anni e sei mesi, avendo riconosciuto almeno dieci capi d’accusa a suo carico.

foto da: http://www.fokus.se/2010/06/goran-linberg-infor-ratta

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L’insospettabile 1

Maria Carlshamre

Vive in Svezia da 45 anni. Un giorno a vent’anni vi andò forse a cercare le bionde e non è ancora tornato. Sul suo blog bilingue, Franco: dalla Svezia con amore [...], qualche giorno fa ci ha ricordato qualcosa della Svezia che non è molto divulgato, ma comunque già in circolazione da diversi anni.

L’insospettabile ha molto a che fare con le disavventure o con le sciagure che colpiscono le donne. E’ che la Svezia, il luogo dove forse è più alta l’attenzione per la parità, sta ai primi posti in Europa per violenze sessuali sulle donne. E gli altri paesi scandinavi non sono molto distanti. La Svezia è un mito per alcuni atti legislativi di civiltà che in altri paesi sono arrivati in seguito o non sono mai arrivati. Per esempio è stato il primo paese europeo a sanzionare, a qualsiasi titolo, le punizioni corporali sui bambini già nel ’79, contrariamente ad altri paesi dell’Unione che ancora non vi hanno provveduto (anzi il famoso scapaccione viene ritenuto perfino utile). Per l’otto marzo 2010 Amnesty International sul problema dello stupro nei paesi scandinavi rilanciava un appello speciale, fatto già l’anno prima (6/3/2009) in seguito all’allarmante rapporto del 2008.   

“Nel rapporto del 2008, intitolato “Il caso è chiuso: stupro e diritti umani nei paesi scandinavi” Amnesty International sottolinea come le donne che riferiscono alla polizia di essere state stuprate hanno una piccola possibilità che i loro casi siano giudicati da un tribunale a causa delle barriere che incontrano nelle leggi e nelle procedure e a causa delle norme stereotipate relative al comportamento sessuale di uomini e donne. Il pregiudizio di genere, inoltre, interferisce ad ogni livello dell’iter legale intrapreso dalle donne sopravvissute. Di conseguenza molti responsabili non sono mai stati chiamati a rispondere dei loro reati.”

(http://www.amnesty.it/scandinavia_stupro_protezione_donne.html)

 

Viene in mente Ciudad Juàrez (ma le realtà complessive sono enormemente diverse e non paragonabili) per il muro di gomma che si può avere anche nel fior fiore del primo mondo e con tanto di fiore all’occhiello in tema di parità.

Ad un aumento dei casi di violenza sessuale, per es. di 140% negli anni ’80-2000, non corrisponde in proporzione un numero conseguente di condanne, statisticamente fermo come indice agli anni 60-70.

Nel suo blog, Franco Fazio, conoscendo bene ormai la Svezia e vivendoci da 45 anni, afferma che tutt’oggi statisticamente una persona rischia più di subire uno stupro che una rapina.

 

Volete sapere – racconta Lilli Gruber – che faccia ha una donna che è stata maltrattata e picchiata per anni dal marito? Eccola. Così ho conosciuto la prima volta, a un dibattito al Parlamento Europeo per la Festa della Donna nel 2005, la giornalista Maria Carlshamre. La sua denuncia ha squarciato un velo che per anni ha nascosto una verità inconfessabile.

Pubblicamente, in diretta televisiva, Maria trova il coraggio di denunciare suo marito, mandando in mille pezzi il grande porta-ritratto di cristallo con la foto cartolina della Svezia.

«Volete sapere che faccia ha una donna che è stata picchiata? Eccola. Mio marito abusa di me da più di dieci anni». Immediatamente licenziata. Avevano tentato in ogni modo di dissuaderla, dove lavorava.  Uno shock per il paese.

Appena rotti gli argini molte altre donne rivelano di essere state malmenate e stuprate. Il dato costante europeo è che la maggioranza dei casi di violenza, intorno al 70%, avviene in famiglia. Questo conferma con chiarezza che il filo rosso del patriarcato annoda ancora la struttura societaria ancestrale a quella moderna. Una triste realtà di sopraffazione emerge con forza nel paese della più avanzata parità di genere raggiunta. Meno di un quarto delle donne che subiscono violenza sporge denuncia, il resto per paura di ritorsione, paura di non essere credute, per vergogna, subisce in silenzio. Gli agenti che ricevono le denunce tendono più a sminuire e ridimensionare, che a perseguire la reale e completa entità del fatto violento, in un eccesso di garantismo insospettabile a rovescio.

Conclude il corrispondente bloger dalla Svezia: … è parere comune tra gli ufficiali che le donne che denunciano questo tipo di crimine “stiano mentendo o si stiano confondendo”. Questo atteggiamento dei poliziotti genera un fenomeno denominato “attrito”: le donne preferiscono non denunciare l’accaduto, o far cadere le accuse in un secondo momento. La condizione degli stupratori in Svezia è quindi di sostanziale impunità.

  

«Dobbiamo cambiare l’immagine di noi stessi. Non siamo i campioni del mondo dell’uguaglianza» è l’amara riflessione di Maria Carlshamre divenuta in seguito parlamentare europea.

 

fonti:

http://www.amnesty.it/scandinavia_stupro_protezione_donne.html
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2005/03_Marzo/31/violenza.shtml
http://franco-francofaziocom.blogspot.com/2010/08/la-svezia-e-seconda-al-mondo-e-detiene.html

 

 

Il film Racconti da Stoccolma, di Anders Nilsson, 2008, in una delle tre storie racconta proprio quella di Maria. Lo abbiamo proiettato al Politeama Siracusa, la sera del  10 gennaio 2009, al passaggio dell’Anfora da Reggio (vedi ABBIAMO FATTO). Al 57mo Festival di Berlino ha ricevuto il Premio Amnesty International.   

“L’onore o la perdita dell’onore è al centro di queste tre storie. Storie che ho voluto raccontare nello stile di Alfred Hitchcock, ovvero dal punto di vista delle vittime” dichiara il regista Nilsson in un’intervista prima dell’uscita del film a Roma. Gli viene chiesto se per caso non c’entri l’alcol: “… mi sembra riduttivo pensare questo. Conosco delle persone che bevono che non hanno mai picchiato la moglie e altri sobri che lo fanno. Insomma non me la sento di segnalare l’alcol come la principale causa della violenza“. (ANSA, 2008-04-24, 49501295).

«Sono stata picchiata e maltrattata per dieci anni da mio marito … e io tutte le volte ero convinta che la colpa era mia, che ero io la causa … È fondamentale che le vittime parlino di questa loro condizione». Nel film si chiama Carina (Boysen), nella realtà è Maria Carlshamre, una giornalista svedese che ha avuto il coraggio di “uscire allo scoperto” e denunciare in diretta televisiva le violenze subite ad opera del marito, collega di lavoro e “geloso” del successo della moglie. Eletta poi al Parlamento Europeo, Carina /Maria ha potuto presentare un programma per la difesa dei diritti delle donne.

(scheda film:http://www.critamorcinema.it/online/?p=2234)

 

 

La violenza degli uomini contro le donne non costituisce solo un reato ma anche un grave problema per la società nonché una violazione dei diritti umani. E’ quanto afferma la relazione d’iniziativa di Maria CARLSHAMRE (ADLE/ADLE, SE) – adottata dalla Plenaria con 545 voti favorevoli, 13 contrari e 56 astensioni – sottolineando che la violenza contro le donne è un fenomeno universale “collegato all’iniqua distribuzione del potere tra i generi che ancora caratterizza la nostra società”.
La relazione ricorda inoltre che una dichiarazione dell’ONU definisce la violenza contro le donne come “ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o nel privato”.

da: 

http://assemblealegislativa.regione.emilia-romagna.it/biblioteca/pubblicazioni/MonitorEuropa/2006/Monitor_2/PE/Violenza_Donne.htm

 

Il Parlamento europeo ha adottato il 2 febbraio il parere dell’on. Maria Carlshamre, elaborato in seno alla commissione per i diritti delle donne, in cui si raccomanda alla Commissione europea e a tutti gli Stati membri di adottare azioni ed iniziative tese a combattere la violenza sulle donne e soprattutto di considerare la violenza contro le donne una violazione dei diritti umani. (…)

 Testi approvati Giovedì 2 febbraio 2006 – Bruxelles http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?language=IT&pubRef=-//EP//TEXT+TA+P6-TA2006-0038+0+DOC+XML+V0//IT
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+TA+P6-TA-2006-0038+0+DOC+XML+V0//IT&language=IT

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Catanzaro: il Tar annulla graduatoria Arpacal che aveva escluso una concorrente in stato di gravidanza

Buone notizie da strill.it:  

Sentenza storica del Tar di Catanzaro nella lotta alle discriminazioni e per l’affermazione del principio di pari opportunità per uomini e donne in materia di accesso al lavoro: su ricorso presentato dalla lavoratrice e con l’intervento ad adiuvandum della Consigliera Regionale di Parità Stella Ciarletta il Tribunale Amministrativo Regionale ha disposto l’annullamento della graduatoria del concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura di 2 posti come dirigente biologo presso l’Arpacal, nonché dei provvedimenti amministrativi con i quali l’Amministrazione ha escluso la ricorrente dalla prova orale in quanto in stato di gravidanza, violando così un principio costituzionale nonché la normativa in vigore in materia di pari opportunità e contrasto alle discriminazioni di genere, contenuta nel Codice sulle Pari Opportunità tra uomo e donna.

“La sentenza assume un significato strategico, condannando una grave discriminazione operata dalla Commissione nell’escludere la concorrente dal concorso solo perchè in stato di gravidanza. E’ importante ricostruire brevemente i fatti: la dottoressa si iscrive al concorso e, superata la prova scritta, viene ammessa all’orale; la data di convocazione coincide con il periodo del parto e la concorrente chiede di posticipare l’orale a un giorno successivo. La Commissione esclude tale possibilità, ma concede di poter effettuare l’esame lo stesso giorno ma in un’altra sede più vicina alla donna, e malgrado la stessa accetti, suo malgrado, tale proposta, non le viene mai comunicata la sede dell’esame e, ironia della sorte, partorisce proprio il giorno prima. Dopo di che il silenzio dell’Amministrazione, che si interrompe solo con la pubblicazione della graduatoria finale del concorso”.

E’ evidente come la Commissione abbia ignorato le legittime richieste della concorrente, andando in aperto contrasto con i principi costituzionali di parità uomo donna sul lavoro e in particolare del Codice Pari Opportunità laddove vieta, all’art. 27, trattamenti discriminatori nell’accesso al lavoro. In tal senso, scrive il Tar nel provvedimento “l’applicazione concreta di tali enunciazioni imponeva, nella specie, alla Commissione di consentire alla ricorrente di svolgere la prova orale successivamente al parto e nel rispetto delle condizioni di salute della madre e del bambino”. “Con la sentenza del Tar – afferma la consigliera regionale di parità Stella Ciarletta – si apre uno squarcio giuridico sul mondo delle discriminazioni in Calabria, che vede un mercato del lavoro ostile e irto d’ostacoli per le donne, tanto nel settore pubblico che privato, laddove in apparenza sembrano essere garantiti eguali diritti e opportunità per lavoratrici e lavoratori, ma in realtà, si perpetrano prassi illegittime e si penalizzano coloro che scelgono l’esperienza della maternità. L’impegno come consigliera di parità è quello di eliminare i fattori che causano questi fenomeni discriminatori, principalmente dialogando con i datori di lavoro, siano essi pubblici o privati, per spiegare loro che la maternità è un valore aggiunto e non una condizione di svantaggio della lavoratrice madre e per trovare una soluzione condivisa in favore della permanenza della stessa sul posto di lavoro. Ma quando ci si trova di fronte un silenzio immotivato, allora è necessario ricorrere agli strumenti giudiziari per stigmatizzare prassi illegittime, ingiustificate e lesive dei diritti delle donne”.

Giustizia, dunque, è stata fatta e l’Arpacal dovrà entro 30 giorni annullare la graduatoria e permettere alla giovane biologa di sostenere l’esame orale compatibilmente con le poppate del suo bambino, oltre che rimborsarle le spese legali sostenute per presentare il ricorso innanzi al Tar. “Affinchè non succedano più casi simili, – conclude la Ciarletta – l’Ufficio della Consigliera Regionale di Parità rimane sempre disponibile a collaborare con la Direzione dell’ Agenzia per individuare le criticità che hanno determinato l’increscioso episodio e avviare un percorso condiviso di promozione delle pari opportunità sul posto di lavoro in favore del benessere dei lavoratori e delle lavoratrici.

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