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Girotondo intorno all’ottomarzo

ratto(Pinax fittile da Locri – Scena di ratto – Reggio Calabria. Museo Archeologico Nazionale. 470-460 a.C.)

Io rifletto, tu rifletti, egli riflette, noi riflettiamo. voi riflettete, essi riflettono.

Così in questo infinito gioco di specchi senza profilassi, di matriosche incantate, l’incendio immaginario collegato alla data si perpetua, la mimosa dall’UDI sbarca in America. E l’otto marzo si abbaia e si scondinzola.

Da fb, un certo Gabriele:

l’8 marzo è la festa delle donne…ma non una festa da serate sciocche come dice la poesia o regalini stupidi e inutili come affermo io ma ha origini se non erro nella rivoluzione industriale, dove le donne che lavoravano (probabilmente in una fabbrica tessile) senza diritti e sotto sfruttamento…un giorno queste operaie si ribellarono chiudendosi nella fabbrica,allora il padrone dell’impianto appicco un incendio per fare in modo che queste uscissero forzatamente ma successe che restarono bloccate dentro morendo arse vive…questa strage successe l’8 marzo e questa festa si celebra con le mimose poichè nei pressi di codesta fabbrica c’erano presenti questa varietà di alberi.ecco adesso conoscete donne o uomini le origini di questa festa!!!! )))VIVA LE DONNE SIETE TUTTO PER NOI UOMINI(((

[sic]

Altro, molto copincollato da un sito all’altro.

“Non ti regalerò mimose. Non ti farò nemmeno gli auguri. Non mi piace l’idea di dedicarti un giorno, di apprezzarti per convenzione, di celebrarti perchè me lo dice il calendario. Mi hai dato la vita, vestita da madre.Hai avuto i volti di amori, poesie, canzoni, gioie, dolori. Hai fatto sussultare la mia anima, esplodere sorrisi, sorgere lacrime, sei stata aurora e tramonto, luce e buio, rinascita e a tratti morte. L’8 marzo lascialo alle cagne che scodinzolano a comando. Tu sei di più. Tu sei tu. Da sempre, il lato più bello di questa medaglia chiamata mondo. Grazie di esistere. DONNA.”
Roberto Arduini

***

–  Grazie di esistere. Donna –

– Prego!  Ma sei fuori registro  –

Non è il caso di fare gli auguri perché non è un compleanno o un onomastico (ammesso che io ci tenga).

Anzi l’idea ti disturba perché resta, e percepisci, solo una festa. Puoi semplicemente ricordare a te stesso, se ne hai bisogno, e alla collettività che qualcosa non funziona, quotidianamente e sotto tutte le latitudini, tra uomini e donne. L’Otto Marzo.

Non voglio mimose, in questo periodo l’albero è in fiore e privarlo di tutti i suoi rami fioriti lo danneggia, come una drastica potatura fuori tempo. Può restare solo il colore. Giallo è bello. Tante piccole cose personali sono dolci, innocenti, ti danno libertà, ma moltiplicate per un miliardo, cento miliardi danneggiano qualcosa. Gli animali lo sanno d’istinto. Se è per questo hai ragione. Una infinità di altri rituali collettivi potresti  detestare.

Non ti piace l’idea di dedicarmi un giorno perché in realtà non me ne dedichi nessuno. Altrimenti diresti: lo faccio già, quanti giorni ti ho dedicato e ti dedico, anzi tutti i giorni ti dedico qualcosa…  Anche alle cagne.

Quando sono madre non mi vesto da madre, non è un vestito. E’ una cosa profonda non paragonabile a nessuna buccia protettiva esterna. Tu non puoi sapere cos’è. Per questo per connotare ricorri all’immagine di un vestito “da madre”.  Da un vestito distinguiamo lo status: il prete, la suora, un impiegato con la cravatta, l’invitata a un matrimonio.

Volevi dire il pancione e il seno col latte e poi qualcosa che ci trasforma nel profondo. Ma non è un vestito, credimi. Qui la tua potenza poetica riceverebbe un segno del fu Pazzaglia per indicare un andamento grafico verso il basso.

Attento, le parole riescono a tradirti. La prima immagine che richiami è la madre. Capisco. E’ il primo grande imprinting che un bel giorno si sdoppia, di qua l’angelo del focolare, di là magari le cagne.

E’ vero ho avuto tanti volti, ma sono volti che per la maggior parte mi hai attribuito. Amori poesie canzoni gioie dolori, in un tuo soliloquio. Vostro soliloquio. Intimista e crepuscolare o di focosa passione. Mi dici che ho fatto sussultare la tua anima, che sono luce e buio rinascita, e a tratti morte. E’ implicito che ti riferisci a una donna tuo soggetto estetico passionale e di sentimento. Prevalentemente e possibilmente notturno. Sei innamorato del tuo immaginario che hai creato per te stesso (voi stessi), a cui non ho partecipato, libera. Sei tu che ti ami in me. Dunque non mi conosci. Mi hai esclusa o cacciata sottraendomi tutti gli spazi tranne quelli domestici. Tutta la storia dell’arte maschile d’altra parte lo celebra. Non parliamo poi della pubblicità, oggi.

Mi devi un risarcimento di millenni, un otto marzo non dovrebbe disturbarti per convenzione.

Eppure mi dici: l’otto marzo lascialo alle cagne che scodinzolano a comando.

Feroce, insultante. Chi sono le cagne? Le borghesi e liberali che in America e in Europa da metà Ottocento in poi si fecero malmenare e imprigionare per chiedere il diritto al voto? Le contadine, le operaie che nell’impero prussiano e nella Russia zarista scendevano in massa contro la guerra, la fame, la repressione per chiedere dignità, diritti, uguaglianza? L’UDI che nell’immediato dopoguerra e fino al ’52 salvò circa settantamila bambine e bambini dalla fame e dal degrado coi treni della felicità? I movimenti delle donne che dal dopoguerra e fino agli anni ’70-’80 lottarono e lottano ancora oggi per consultori, maternità, salario, e contro le discriminazioni? Le precarie di oggi che protestano, in quello che resta dell’industria, della scuola, sul lavoro come lusso?

O forse le donne che ormai non molto consapevoli della simbologia e del significato storico e sociale vanno al cinema, al pub a farsi una pizza godendosi la giornata comunque come una festa? In ogni caso incontrandosi.

Detesti l’otto marzo. Allora parlami di un’altra cosa, di un altro segnale convenuto, per ricordare al mondo che ho dei diritti come persona che mi vengono calpestati, sottratti, fino all’eliminazione fisica. Una storia lunga millenni. Questo lo devo comunicare in qualsiasi modo fino a quando sarà necessario.

Oppure vite umane, vite di donne in cambio di lavoro e status quo?

Mi dici che sono di più, anzi molto di più, perché io sono io (evidente che alludi più al corpo di piacere). Anche le donne immigrate? Le donne che lavorano col sesso? Le donne che si innamorano di donne? Le donne che non sentono come proprio il loro corpo? Suppongo che la tua fascia di riferimento convenzionale sia dai diciotto ai quaranta-cinquanta.

Ti immagino incantato davanti  a un enorme cartellone pubblicitario.

Il lato più bello di una medaglia, dici. Ancora ricadi sull’estetica e non ti ricordi che sono struttura viva, società non riconosciuta, soffocata, respiro del mondo (come il tuo). E non il tondo piatto di una medaglia, o un cammeo ornamentale, o una medaglietta religiosa.

Mi dici grazie di essere donna. Ma a patto di non essere brutta sporca e cattiva o anziana, omosessuale, transgender, lavoratrice sessuale… Di non essere cagna e di non scodinzolare a comando.

Insomma desiderabile.

Questo racconta l’otto marzo.

DONNA

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Otto marzo e donne suicidate

 

Quell’imprevisto della libertà femminile

GENTILE  direttore ho accolto con convinzione il suggerimento che lei ha avanzato alle donne calabresi di dedicare la Giornata Internazione della Donna a Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola e Lea Garofalo, perché dimostra, da parte sua, un’attenzione particolare per quanto, in quest’ultimi anni, si muove nel mondo della ‘ndrangheta, che sta facendo i conti con l’imprevisto della libertà femminile. Pur facendo mia la sua proposta, mi permetta, però, di avanzare alcune osservazioni, per evitare alcuni rischi, che ho intravisto in alcuni interventi.

Queste tre donne non vanno separate da tutte le altre, non sono donne eccezionali, ma donne “comuni” in un mondo in cui la libertà femminile fa paura a tanti uomini, anche e ancor di più ai mafiosi. Vanno, pertanto, ricordate e riconosciute tutte le donne che con le loro scelte stanno erodendo sin dalle  fondamenta la forza della ‘ndrangheta.

Mi riferisco a Tina Buccafusca,  moglie del boss Panteleone Mancuso di Nicotera, “suicidata” prima che iniziasse la collaborazione con i magistrati, a Ilaria La Torre, ex moglie di Francesco Pesce, che sta testimoniando contro il marito al processo “All Inside”, alle sindache Elisabetta Tripodi  di Rosarno e Carolina Girasole di Isola Capo Rizzuto, che quotidianamente difendono il loro desiderio di governare con libertà la propria Comunità. Mi riferisco ad Annamaria Molé e Roberta Bellocco, appartenenti a due delle più potenti famiglie mafiose della Piana di Gioia Tauro, studentesse del Liceo scientifico di Rosarno, che in un convegno sulla legalità hanno dato testimonianza del loro desiderio di essere libere di poter vivere la propria vita, nonostante il nome che portano.                        

Mi riferisco alla figlia di Lea Garofalo, Desirè che si è costituita parte civile contro il padre, in nome della madre. Mi riferisco ad Anna Maria Scarfò di Taurianova, che ha denunciato e mandato in carcere i suoi violentatori. Mi riferisco a tutte le donne che, in ogni luogo, a partire dalla casa, lottano quotidianamente per affermare la loro libertà. Mi riferisco alle donne che nelle scuole, frequentate anche dalle figlie dei mafiosi, insegnano alle più giovani l’autorizzazione ad essere  libere, contribuendo così alla fine della ‘ndrangheta. Insomma, anche in Calabria c’è tutto un mondo femminile che sta cambiando, e Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo sono parte di esso. 

Gli strumenti di queste donne, come di tutte quelle che hanno distrutto il patriarcato, togliendo ad esso la propria credibilità, sono la consapevolezza di sé e l’amore per la libertà propria  e delle proprie figlie e figli. La loro non è “resistenza civile”, ma affermazione di sé e del proprio desiderio, a costo anche della propria vita. E questo, ne sono convinta, ha un valore molto più alto di mille manifestazioni. La vera lotta alla ‘ndrangheta, come lei stesso direttore ha scritto, è “ fatta di piccoli e grandi gesti quotidiani”. Molte donne, in  questa regione, lo stanno facendo. La ‘ndrangheta che uccide le proprie donne perché l’”abbandonano” e la “tradiscono”, dopo che generazioni di donne, come la madre di Maria Concetta Cacciola o di Giuseppina Pesce, le hanno garantito omertà e complicità, non è  diversa dai tanti uomini che ogni giorno, in ogni parte del mondo uccidono le donne (mogli, fidanzate, ex, figlie, sorelle), quando tentano di riappropriarsi della propria vita e li abbandonano.

Quello a cui stiamo assistendo è la fine del patriarcato mafioso. Alto è il prezzo che molte, troppe, stanno pagando. Separare Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola  e Lea Garofalo dalle loro simili, significa indebolire la forza delle loro scelte e le ragioni che le sostengono. Mi auguro che l’8 marzo non venga trasformato in una manifestazione di tutti contro la ‘ndrangheta. In prima linea troveremmo magari molti di quegli intellettuali e di quei docenti universitari, che saranno d’accordo con la sua proposta, pronti a firmare e a “partecipare” purché siano “visti”, che a Cosenza hanno disertato la “lezione” del procuratore Pignatone, che aveva capito la forza delle donne nella lotta alla ‘ndrangheta. Lei c’era a quella manifestazione e con lei c’erano non più di dieci docenti Unical. 

Gentile direttore apprezzo la sua proposta e spero che venga lasciato alle donne, e solo alle donne, perché a loro appartiene l’8 marzo, di farla propria, nei modi in cui ognuna, individualmente o assieme ad altre, deciderà.

Franca Fortunato

***

Riceviamo da Franca una lettera aperta al direttore del Quotidiano della Calabria, giornale su cui scrive e su cui è stata pubblicata giorni fa.

E’ da un po’ che traboccano termini che celebrano la retorica dell’eroe. E non è in questo senso che va percepito il profondo mutamento che sta avvenendo in molte donne legate al mondo mafioso. Tante madri hanno ripudiato figli definiti ‘nfami che hanno deciso di collaborare con la giustizia, ma molte altre colpite nel profondo degli affetti e dei sentimenti hanno deciso di rompere ogni legame coi loro uomini mafiosi, con estremo coraggio e rischio.

Quando una donna viene colpita negli affetti più cari non ragiona più, non c’è omertà che tenga, racconta il pentito Calderone a Pino Arlacchi, (Dacia Maraini ne farà un testo teatrale: Mi chiamo Antonino Calderone).   

L’esplosione dell’affettività ferita a morte è una delle componenti che spinge  le donne a rompere i legami nel mondo mafioso. Ma bisogna riflettere che senza la spinta evolutiva dei movimenti delle donne verso l’emancipazione, sul piano della comunicazione sociale, e in particolare di quelle associazioni – in prevalenza femminili – che contrastano le mafie e che offrono sostegno alle donne vittime, il fenomeno della loro ribellione a un mondo chiuso e ferocemente patriarcale sarebbe impossibile. E’ anche il timore di essere fatta fuori comunque.

All’interno la donna è ritenuta inaffidabile e di proprietà. Ha solo compiti di servizio e di comunicazione con l’esterno, non deve discutere gli ordini. Affetti e sentimenti all’esterno sono vietati all’uomo del clan, la donna non deve chiedere mai, deve essere tenuta lontana e all’oscuro, se la donna sa qualcosa finisce che o la deve ammazzare lui o la deve far ammazzare da qualcun altro (Renate Siebert). Anche se nel tempo sono emerse donne al comando.

Ma… è venuto il momento di comunicare in proprio con l’esterno e di porsi delle domande. Non è più disposta a trascorrere la sua vita in un buio labirinto dove è stata assegnata prima dal destino e poi dagli uomini del clan.

Ecco quell’imprevisto della libertà femminile. Ed ecco il senso del manifesto per l’8 Marzo che l’UDI dedica a tutte le donne e ai loro diritti, per la costruzione del futuro. E, d’accordo con Franca, a tutte le donne che decidono di vivere la libertà della propria persona nei diritti, soprattutto quelli da recuperare, che spezzano catene umilianti e rischiano la propria vita. 

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Più che una festa

Ringraziamo Mimma Iannò Latorre per averci inviato una riflessione sull”8 Marzo.

Questo “otto marzo” è diverso dagli altri. L’eco dell’ultima manifestazione “Se non ora quando” del 13 febbraio scorso, mi spinge a considerare l’aspetto positivo della lotta delle donne per la propria liberazione. Si intravede, infatti, oggi più che mai una reale possibilità di poter coinvolgere, anche le più restie e pigre tra di noi, a lottare tutte insieme per la rivendicazione dei nostri diritti. E non solo. Per stabilire, anche, un patto intergenerazionale che connoti finalmente la lotta della donna alla stessa maniera della lotta portata avanti dall’intera umanità per i diritti di tutte e tutti alla vita. Quest’anno, poi, la ricorrenza coincide con l’ultimo giorno della festa di carnevale. E questa sovrapposizione casuale di data, mi porta ulteriormente a riflettere sia sul senso della festa carnascialesca sia sull’altro significato più serio legato alla memoria e alla consapevolezza delle dure lotte che molte donne hanno affrontato per affermare i propri diritti nei posti di lavoro e nella società, dalla Rivoluzione industriale ad oggi.

Il carnevale si sa è un eccesso liberatorio dal sottile gioco della rappresentazione farsesca del quotidiano, illusione del disfarsi delle maschere imposte, dalle relazioni distorte fondate sullo scontro e sulla difesa ad oltranza dal volto dell’altro considerato nemico del nostro “io”. Tutto è lecito, è uno scherzo, un lazzo, un guizzo ironico della mente per schernire e sorprendere la monotonia del rapporto tra uomini e donne. Quale collegamento potrebbe esserci tra il carnevale e la festa della donna? La festa della donna non è uno scherzo, una sacra rappresentazione dell’eterno femminino da idolatrare in modo ironico ma è un amaro ricordo. E’ memoria di dure rivendicazioni, di tragedie, che col passare degli anni si tramutò in Giornata di lotta internazionale delle donne per la difesa e il riconoscimento dei propri diritti economici, sociali e politici e contro la discriminazione sessuale. Sembra che il doppio significato insito nella natura delle cose possa aiutare la riflessione sullo specifico femminile come veniva definita anni or sono la differenza di genere e i problemi ad essa collegati. L’unico legame possibile tra le due ricorrenze è senza dubbio la globalizzazione del libero mercato che si impadronisce degli eventi per fare business. L’uso consumistico di coriandoli e mimose che si spandono in un folle volo sulle nostre città gonfie di beni materiali e svuotate di qualsivoglia bene spirituale. Nella ricchezza si nasconde la miseria. I fili del male si intrecciano in modo inestricabile con i fili misteriosi del bene. Sembra che non si possa trovare soluzione alcuna ai problemi delle donne. Il Parlamento ha sempre problemi più urgenti da risolvere… ma basta una piazza dove si possa urlare la rabbia e il dolore, e l’attenzione della gente si concentra su un punto anche solo per poco e lentamente, se si riesce a mantenere desta l’attenzione in mezzo al turbinio costante delle news multimediali, si può riprendere il cammino per raggiungere la meta.

Noi donne, stiamo facendo dall’epoca della Rivoluzione francese fino ad oggi, un percorso di liberazione per il riconoscimento della differenza e della parità dei diritti. Sarebbe utile che le giovani generazioni nelle scuole o nelle associazioni, conoscessero meglio questa storia… ma non è questo aspetto della questione femminile, il contenuto della mia riflessione. Mi pare utile, invece, porre l’attenzione sul recente fenomeno dell’ “escortismo“ che sta pervadendo con più clamore, il mondo dei nostri politici. Forse Ruby e le altre come lei, non lo sanno, ma anche loro sono donne che dovrebbero iniziare un cammino di liberazione dal giogo patriarcale. Chi glielo farà notare? Non di certo il loro “oppressore”. Essere oppresse è un lavoro faticoso ma un lavoro. Non è forse considerato il mestiere più antico del mondo? Dal guadagno facile ed immediato e dalla coscienza sorda? Non è forse una donna libera dagli schemi moralistici, una che lavora con il proprio corpo? Alcune donne furbe come le “signorine a pagamento” glissano così l’ostacolo della povertà affidando il loro corpo ai giochi di un uomo che  curano e allietano alleggerendolo dalle fatiche causate dal logorio del potere… Sono libere senz’altro queste donne ma non sono, certamente, donne liberate dall’ossessione sessuale.

Quante le schiave del volere maschile che nei secoli si sono date generosamente e continuano a farlo? Per un frainteso senso di appartenenza al proprio ruolo (una donna ama… non si vende)  e per una non compiuta identità, (il valore e la stima della sacralità del proprio corpo) in cambio della sicurezza e del benessere si sono prostituite e si prostituiscono all’uomo potente che le impreziosiva e le impreziosisce rendendole oggetto di desideri carnali più che soggetto e protagonista del cambiamento e della trasformazione nei costumi e nelle relazioni tra cittadine e cittadini di una società cosiddetta civile? Mentre milioni di donne oneste, povere, lavoratrici, schiave del martoriato sud del mondo oppure ricche ed emancipate dell’occidente opulento, profughe e migranti con obiettivi comuni e differenti, in lotta sempre, tutte unite per rivendicare i diritti umani fondamentali e universali, per esprimere desideri, proporre e trasmettere saperi e pratiche di liberazione dall’antico dominio maschile, sono in continuo travaglio da ormai troppo tempo… altrettante rappresentanti del genere femminile sono invece impegnate a svendersi al miglior offerente.

Oggi in ogni settore della società la presenza femminile fa la differenza. Quale differenza? La visione dei problemi del mondo scritta dalla fatica femminile sui campi di grano, nelle risaie, nelle officine, nei luridi tuguri e nelle baraccopoli delle megalopoli di oriente e occidente, la lettura seria e determinata delle madri di tutte le piazze in rivolta  contro il dittatore di turno, i pianti strazianti e le ferite dei corpi violati ed uccisi non rappresentano ogni giorno per ognuno di noi un senso profondo di conversione ad una vita giusta, dignitosa, pacifica?  Non sono queste donne un richiamo autentico alla bellezza e alla bontà di ogni essere umano, donna o uomo che sia e che ha il diritto di vivere e di non essere ucciso o uccisa? Ma questa differenza nell’azione nonviolenta si paga ancora a caro prezzo. La parità, miraggio delle femministe degli anni 70 non è ancora pienamente realizzata. Non tutte le donne sono però consapevoli dei propri diritti e della propria uguaglianza sul piano della legge. Le nuove generazioni di donne pare che non si entusiasmino troppo a queste battaglie che furono invece ideali e scopi esistenziali delle loro madri. Strette dal bisogno di trovare un lavoro subito, sono propense per questioni di sopravivenza ad accettare con facilità qualsiasi proposta venga fatta loro e pur di uscire dai meandri tortuosi dell’indigenza vanno incontro inconsapevolmente ad un assurda felicità che le incatena per sempre alla schiavitù del corpo, al suo apparire fallace e precario. Il lavoro onesto non si trova, la disoccupazione giovanile nel nostro Bel Paese è a livelli altissimi. La fuga dei cervelli aumenta, il popolo italiano è un popolo di vecchie e vecchi! Non sarebbe il momento, come è stato detto nella manifestazione ultima delle donne, scese nella piazze per protestare contro l’uso e la violenza dell’immagine del corpo della donna nella pubblicità, di sentirci ancora più unite tutte, anche se di corrente politica diversa, atee e religiose, nella comune lotta per la nostra liberazione? A cominciare dal lavoro. Fonte di sostentamento onesto e dignitoso. Lavoro per tutte, per poter crescere e realizzare ed esprimere pienamente il nostro “genio femminile” senza paura di essere sminuite, oltraggiate, prevaricate ed uccise. Lavorare è un nostro diritto.

Eppure l’articolo 37 della nostra Costituzione recita.” La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

In una società democratica come la nostra è urgente portare avanti una politica “paritaria” non solo per puntare al miglioramento effettivo della condizione sociale della donna italiana ma per creare percorsi lavorativi accessibili a tutti e tutte quelli e quelle che provengono da Paesi e culture differenti e che in questi giorni stanno arrivando sulle nostre coste per sfuggire ai regimi totalitari che non assicurano di certo un futuro lavorativo dignitoso. Mi riferisco certamente al miglioramento dei servizi pubblici come gli asili nido per le madri lavoratrici, il tempo pieno nelle scuole primarie, la defiscalizzazione del lavoro delle baby sitter e delle badanti, un effettiva tutela legislativa del lavoro delle donne, ad esempio: fissando delle “quote rosa”, imponendo ai datori di lavoro un’assunzione paritaria (uomo-donna) dei dipendenti e sanzionando efficacemente i sempre più frequenti licenziamenti “giustificati” dalla maternità. Questo “otto marzo” vorrei infine che fosse una forte presa di coscienza soprattutto da parte di tutte quelle giovani donne che non si amano abbastanza e non credono che solo puntando in alto, salvaguardano la propria dignità personale e rinsaldano la coscienza con la ferma convinzione di appartenere al genere femminile e orgogliose di esserlo!

 Mimma Iannò Latorre

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Otto marzo e due volponi

 

           

 

 

 

L’8 Marzo non chiediamo: affermiamo il diritto delle donne

Liberiamoci dal governo per governarci

Nelle piazze e nelle strade del paese, un milione di donne hanno reclamato il loro diritto a riferirsi ad un governo dignitoso. Lo hanno fatto usando come esempio la propria dignità, mortificata dalla pervicace negazione dei diritti. Molti uomini le hanno seguite, la politica ne ha preso visione. Senza conseguenze nell’esercizio delle responsabilità pubbliche ricoperte da governo ed opposizione.

In questi giorni sull’altra sponda del Mediterraneo e nell’area a noi vicina del Nord Africa, dilagano proteste contro dittatori prepotenti, privi di dignità umana, incapaci di rispettare quella dei loro popoli e pronti a tutto per conservare il potere.

Le donne e gli uomini hanno dato l’avvio a un cammino ancora imprevedibile.  

Nell’attuale assetto del mondo il cammino verso la democrazia per questi popoli è gravato da enormi interessi di altri paesi per lo sfruttamento delle risorse. Di fronte alle reazioni sanguinarie, contro la lotta pacifica di donne e uomini in Libia ordinate dal dittatore Gheddafi, chi ha responsabilità nell’averlo sostenuto ed arricchito, come il Premier italiano in carica,  resta pressoché in veste di osservatore. L’intero  mondo occidentale, “esportatore di democrazia”, che non intende abbandonare i suoi stili di vita, resta in attesa, forse di nuove soluzioni da imporre a quelle popolazioni, lasciandosi tentare, ancora una volta, da “opzioni militari”.

Non è immaginabile una svolta democratica indolore in queste condizioni, sappiamo che c’è un prezzo da pagare, ma sappiamo anche che il prezzo più alto lo pagheranno donne e bambini. Anche il nostro governo debole e indegno, di fronte alla nostra denuncia e all’accusa di fare uso criminale del potere, persevera con la prepotenza e l’illegalità ad ancorarsi al posto che occupa con l’unico scopo di conservare i suoi privilegi.  

E le cittadine hanno un credito di libertà e diritti che si allarga di giorno in giorno, varcando le soglie della tollerabilità.

Coloro che sostengono a parole le nostre ragioni, non le hanno sostenute come sarebbe stato doveroso.

Di fronte a questo abbiamo la responsabilità di rispondere ancora e sempre con la nostra idea di politica che concretizziamo ogni giorno con pratiche di lotta pacifica al potere patriarcale sempre più connotato da sessismo, classismo, razzismo ed omofobia.

Ripetiamo: il governo deve dimettersi! Oggi lo deve fare per molti motivi in più come la sua totale incapacità di dare risposte democratiche all’emergenza umanitaria, inevitabile, e di governare con saggezza per la parte che compete al nostro paese

Sappiamo quello che avviene ed è avvenuto nei centri di permanenza temporanea, le donne hanno subito stupri e umiliazioni. Sappiamo del trattamento riservato ai migranti  in terra libica “per la cortesia usataci da Gheddafi nel trattenere i clandestini” e sappiamo che alle donne è stato usato un trattamento particolare.

Affermiamo, nella consapevolezza di tutto questo, che con l’unica accoglienza alle persone di cui è capace questo governo è quella che si riserva alle merci! E le donne sono la merce preferita del premier che si è macchiato di colpe che stanno aprendo alla legittimazione dello sfruttamento della prostituzione e della tratta come prezzo degli accordi internazionali.

Sentiamo il dovere nel centenario dell’8marzo, di compiere una svolta e proporci come governo della buona volontà del popolo Italiano ed esprimere l’accoglienza e i gesti positivi delle donne nelle relazioni tra popoli.

Faremo i passi necessari perché i centri antiviolenza siano soggetti presenti e vigilino sui luoghi di arrivo e sui centri di prima accoglienza per l’immigrazione.

Siamo stanche di celebrare e di attendere, lo siamo tutte, ma principalmente sappiamo di avere il compito di dare seguito alle manifestazioni del 13 febbraio, volutamente interpretate dalla politica come si trattasse della “solita richiesta di concessioni”.

Siamo precarie, disoccupate, lavoratrici, immigrate, lesbiche, madri, figlie, cattoliche, musulmane, atee, sposate, divorziate, single, siamo soggetti politici, ci prendiamo le nostre responsabilità e pretendiamo i nostri diritti.

Invitiamo tutte le donne che sono state nelle piazze e per le strade del paese a sottoscrivere ancora il patto tra donne per la democrazia e la liberazione dall’irresponsabilità politica.

Quelle che sempre

(Archivio della memoria delle donne del sud, Arcidonna, Arcilesbica, Associazione Maddalena, Comitato 194, centro Antiviolenza Eva, Cooperativa Dedalus, Donne Medico, DonneSudonne, Giuriste Democratiche, Udi Di Napoli, Adriana Buffardi, Antonella Cammardella, Elena Coccia, Simona Ricciardelli, Pina Tommasielli )         

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