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Femminicidi e femminicidi

 

Enza Maria qualche giorno fa a Paternò ha perso la vita davanti alla sua abitazione. Il suo ex convivente le spara dopo una lite. Per motivi di gelosia è la stereotipa nota di cronaca che ancora in prevalenza adottano piccoli e grandi giornali.

“cara Giovanna, ti accorgerai dalle foto, non c’era niente, né un fiore, né una scritta, uno squallore e un’indifferenza che mi ha toccato l’anima, la gente affacciata ai balconi che ci guardava dietro le tendine….. non si può restare così indifferenti dinanzi all’ennesima morte di una donna! comunque, poi è venuto anche un giornalista che ha fatto le sue foto e abbiamo spiegato per l’ennesima volta che non si può morire di femminicidio…”.

Da Udi Catania ci arriva questo mini reportage desolante. Donne dell’Udi hanno portato qualche fiore davanti alla porta di casa dove Enza Maria Aicino è stata uccisa, a Paternò in via Gela.

E un foglio: stop femminicidio.

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La frequenza e la distribuzione statistica dell’uccisione sistematica che colpisce le donne, gli autori in massima parte familiari: mariti, fidanzati, conviventi, fratelli, padri, o sconosciuti, i luoghi e altre situazioni al contorno ci dicono che è un atto insieme punitivo e di affermazione estrema di possesso, o di odio  verso la persona in quanto donna.

I termini assassinio, uccisione, crimine … omicidio non rendono la connotazione sociologica e legata al genere, per questo si è sentita la necessità di un nuovo termine che avesse degli impliciti correlati: femminicidio. Un termine che nella versione inglese femicide risale al 1800, ma che nasce nell’ambito della sociologia  ispanoamericana per spiegare le eliminazioni di donne, specialmente a Ciudad Juàrez. Diana Russel, criminologa statunitense, dice di averlo sentito nel 1974 e di averlo adottato pubblicamente nel ’76, lavorando alla sua definizione.

In Italia UDI Napoli afferma: Ne abbiamo pronunciato il nome la prima volta per salvare Safija Hussaini, con la petizione a Rosa Russo Jervolino, per conferirle la cittadinanza (era il 2002, Safija era stata condannata alla lapidazione). Barbara Spinelli d’altra parte riferisce di aver sentito il termine, che già alcune associazioni di donne iniziavano a usare (UDI, Donne in nero, Casa delle donne per non subire violenza di Bologna), la prima volta nel 2006.

E ben venga. Non tanto del termine quanto della storia e delle connotazioni che femminicidio si porta dietro occorre ampia divulgazione.

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Non abbiamo il tempo di elaborare un lutto anche se non diretto, fisico, familiare, che subito ci assale un altro.

Melissa Bassi, sedici anni, era appena scesa dal bus per entrare in classe, a scuola.

Bombole di gas in un cassonetto, un timer. Un’esplosione.

Melissa non c’è più. Dilaniata dall’esplosione. Altre ragazze ferite, una grave.

Davanti a una scuola. Un istituto professionale per i servizi sociali e moda, Fancesca Laura Morvillo Falcone, di Brindisi.

Simbologie e metafore ancora di dolore e rabbia, logore. Non sappiamo ancora nulla. Ma sappiamo che quella scuola è frequentata tutta da ragazze.

Sull’asfalto libri, diari, zainetti, scarpe.

  (foto Repubblica)

il simbolo UDI contro il femminicidio adottato fin dal 2001/2

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